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E se non fossimo così coscienti come crediamo?

La coscienza fluttua e non ha luogo. In questo stesso istante sto digitando dei pulsanti sulla tastiera. Sono cosciente delle parole che sto scrivendo e dello schermo illuminato del mio portatile. 

Sono cosciente della pagina bianca del file Word che mano a mano si riempie di caratteri alfabetici. 

Eppure, tante cose sfuggono alla coscienza: non sono cosciente dell’equilibrio omeostatico del mio corpo, dei suoi micromovimenti regolatori. Non sono cosciente delle confezioni di pasta impilate nella credenza. Non sono cosciente d’essere situato nel mio studio, delle sue pareti bianche, della rigidità della sedia…

In altre parole, la mia coscienza è intenzionalmente annodata al discorso che sto scrivendo. La parte di realtà residuale si eclissa: semplicemente non è.

Come dice il filosofo francese Jean Paul Sartre, è necessario uno sforzo intellettuale: devo oggettivare la coscienza per provare a fissarne il suo contenuto. Ad esempio, devo rivolgere la mia riflessione al di là delle parole che sto scrivendo, per evadere dal flusso. E lo sapeva bene Virginia Woolf…

Ma, in assenza di riflessione e di auto-conoscenza, la coscienza insegue sé stessa. Il suo movimento è paragonabile alle increspature delle onde sulla battigia… bolle d’acqua che si formano e disfano rapidamente.

La coscienza gravita nei meandri dell’esperienza. Sono gli unici aspetti della realtà di cui ciascuno è direttamente cosciente o consapevole. È sentirsi vivi, come quando da piccoli vostra madre, a Natale, vi regalava la fantastica fabbrica dei mostri. 

S’annida un mistero in questi ragionamenti. Ma quale?

Possiamo vedere qualcosa, sentire qualcosa. Ogni organismo è dotato di un sistema visivo estremamente sofisticato che ci consente d’identificare miriadi di volti al giorno. Eppure, il volto che voi vedete è dotato di un carattere privato, soggettivo ed emotivo che non è possibile fissare con regolari criteri oggettivi. 

Questo è il segreto sommerso della percezione cosciente. il processo che soggiace alla percezione visiva è lo stesso, la spiegazione in termini causali è la medesima, ma l’effetto fenomenico è abissale. È una vertigine. Non siamo alla ricerca delle spiegazione sul come ma sul senso del contenuto delle esperienze provate.

Il corpo, in questo senso, è centrale. Il primo accesso alla percezione è sempre il corpo che invia segnali al sistema nervoso centrale. Un corpo che non è passivo. Plasma, riconfigura e cesella il mio sentire. L’insondabile aspetto qualitativo della coscienza è sempre e primariamente governata dal corpo che abito. 

La vostra altezza, le fibre muscolari, la lunghezza degli arti, la ruvidezza dei palmi è la prima finestra sul mondo. Il corpo è incorporato nella visione. In questo senso, è anche la vostra prigionia.

Pensateci bene, durante l’esplorazione visiva di un’immagine si alternano velocemente dei movimenti saccadici – oculari – della durata di circa 300 ms. Non solo, il mio corpo insegue la visione, la mia testa ruota, il busto s’inclina, le mani volteggiano. Ancora, seguire una mela, una persona, un paesaggio significa abbandonare i loro contorni geometrici. Il corpo umano è ciò che risulta dallo scambio e dal ribaltamento mai concluso tra chi tocca e chi è toccato, fra un occhio e l’altro, fra una mano e l’altra.

L’arte figurativa e la pittura vive di questa immediatezza del corpo come chiasma. Lo sguardo del pittore lo interroga per sapere come possa far sì che esista all’improvviso qualcosa e proprio quella cosa per comporre quel talismano del mondo, per farci vedere il visibile. 

La mano che accenna verso di noi nella Ronda di notte di Rembrandt è veramente là solo quando la sua ombra sul corpo ce la presenta contemporaneamente di profilo. La spazialità del capitano si colloca nel punto d’incontro delle due prospettive incompossibili, e che pure si trovano insieme. 

È un gioco d’ombre. Per vedere la cosa è necessario non vedere l’artificio fittizio. Il visibile, in senso profano, dimentica le sue premesse, riposa su una visibilità totale che va ricreata, e che libera i fantasmi in esso prigionieri.

Anche il genio artistico di Cézanne nel suo mirabile quadro Le jardinier Vallier ce lo insegna.

Osserviamo bene il dipinto.

Il pittore trascura i dettagli specifici: la blusa bianca, il pantalone di feltro, il tomaio delle scarpe, la chaise di legno, il groviglio d’arbusti alle spalle… il pattern percepito è privo di dettagli. È opaco, indistinto come materia amorfa. 

Ma come riusciamo a distinguere i singoli elementi in un quadro d’insieme? 

Gli elementi raffigurati sono trattenuti da blocchi cromatici costanti. Le linee geometriche percepite rappresentano sfumature diverse che, a loro volta, generano costanti invarianti. Così il bianco delle blusa diviene blusa, il cobalto del pantalone diviene pantalone. Il colore-involucro diviene colore-percepito. Poi, vi è l’astrazione delle caratteristiche primarie: quel giardiniere potrebbe essere un qualunque giardiniere.

Quel viso non è il viso specifico del jardinier Vallier di Cézanne, ma un viso astratto, il viso di un “modello”. Ogni elemento del quadro è un idealtipo che diviene quell’unico e specifico giardiniere quando, attraverso la memoria, relazioniamo tutti i giardinieri descritti, raccontati o incontrati grazie all’esperienza narrativa e autobiografica.

Ecco la straordinarietà di Cézanne: tutti questi processi non sono altro che gli stessi processi top-down che si innescano nel processo visivo mediante l’elaborazione dell’informazione nella corteccia visiva primaria. 

Cézanne ha forzato la sua visione e ci ha restituito qualcosa di anomalo: ha dipinto un frammento di stato cosciente. 

È come se avesse forzato così tanto i suoi occhi da immobilizzare quella scarica elettrochimica che attraversa il cervello prima ancora che l’immagina venga elaborata definitivamente. Ha rappresentato quel “poco prima” e “quel poco dopo” che esonda nella visione completa di un oggetto. Ha colto l’aspetto precategoriale e fenomenico della percezione.

Le tonalità di bianco, di marrone, di cobalto, le pennellate vermiglie innescano relazione tra gli oggetti raffigurati e li estendono al di là del quadro: producono quella terza dimensione che va verso le cose a partire dal mio corpo, al quale sono, inevitabilmente, incollato. 

Il colore, quindi, è la traccia del corpo che si muove, che imprigiona il movimento e ne conferisce spessore. Il suo corpo è dentro il quadro perché nulla può essere percepito senza la sua presenza incarnato nella tela.

Ci avete mai pensato? 

Provate ora ad abbandonarvi al flusso della coscienza. Sospirate e chiudete gli occhi. Apriteli, e provate ad inseguire le tracce del corpo dei pittori nei vostri quadri preferiti.

Luigi Celardo

In copertina: René Magritte, Il doppio segreto (1927)

Luigi Celardo

Uno dei primi ricordi di cui ho memoria è legato alla scelta del mio nome. Mia madre decise Luigi per il richiamo regale, per mio fratello scelse Teo. Insomma: Re e Dio (le aspettative erano basse!) Ho ereditato la follia familiare (non la megalomania, fortunatamente). Dopo una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni, ho deciso di specializzarmi nella comunicazione umana in ogni sua forma (addio transistor e resistori!) Cerco di comprendere i segreti del linguaggio bazzicando romanzi post-moderni, saggi di sociologia, pellicole della Nouvelle Vague e serie-tv comiche.
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