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Beckett, Kline&Bacon: storie assurde di silenzi e schizofrenia

Trentun’anni fa, oggi, ci lasciava il genio insuperato di Samuel Beckett, una delle voci più austere e impietosamente lucide del secolo scorso.

Vogliamo ripercorrere la sua rivoluzione muta e perforante attraverso le arti visive che, su sua stessa ammissione, gli hanno servito le suggestioni poetiche di cui aveva bisogno in un’era così buia.

Tra Francis Bacon, minimalismo pittorico e Franz Klein, analizzeremo lo stato vegetativo di un’umanità che dopo genocidi e bombe atomiche è riuscita a sopravvivere. O forse no?

C’è chi riconosce la portata grandiosa del suo linguaggio a-logico e scarno e chi riduce il suo pensiero ad una decostruzione annichilente della tradizione. Chi urla al genio visionario e chi smonta il sottotesto esistenzialista delle sue opere perché eccessivamente piatto e catastrofico.

Quel che è certo è che Samuel Beckett è riuscito a raccontare lo spirito di un’epoca senza raccontarlo veramente. Ha saputo mettere in piedi una retorica rotta ed inerte senza passare per le formule della retorica, usando un (non)linguaggio destrutturato e asintattico, vuoto e ridotto all’estremo, perché “l’insensatezza deve essere mostrata, non detta”.

Questo cortocircuito espressivo e rappresentativo che in Beckett riduce l’arte a pura interrogazione senza dare risposte, ha trovato una traduzione fedelissima nelle arti figurative del ‘900, come gran parte della critica ha riconosciuto. Partiamo quindi dal minimalismo pittorico

Questa corrente artistica del secondo dopoguerra americano, nella pretesa di usare meno risorse possibili per pronunciarsi sulla realtà, sembra infatti combaciare con l’estetica spartana e tesa del drammaturgo, come vedremo in alcuni suoi testi. Puntando alla non-espressività di objets trouvés squadrati e di manifattura industriale, ha accolto la dissacrante eredità duchampiana nelle geometrie nude e asciutte di Donald Judd, Carl Andre, Dan Flavin e Sol LeWitt.

Un’operazione riduzionista che ha eliminato tutta l’emotività superflua e sottratto il prodotto alla mano dell’artista che l’ha pensato: non c’è spazio per il pathos astrattista di Rothko né per la fisicità energica di Pollock e della sua action painting.

In Beckett si riscontra lo stesso principio di economia espressiva, che trova la sua esplicitazione massima in Finale di partita (1957), dramma circolare di un’umanità reietta che si trascina a fatica tra tempi morti, battute futili e riso amaro. Trama? Non pervenuta. Colpi di scena? Neanche. Emozioni? Sotto lo zero. Solo la sensazione che “qualcosa st(i)a seguendo il suo corso”, come afferma Clov, uno dei personaggi in scena, a sottolineare l’eterno anti-climax del presente attraverso un’escamotage meta-teatrale.

Astrazione, sottrazione e impersonalità sono dunque le parole chiave di quest’arte minimalista e meccanica, che, tanto in scena quanto nelle stanze dei musei, mostra “il vuoto rifiuto di un’esistenza dai valori assoluti”, come lo stesso Beckett afferma.

Altro rimando alle arti figurative nel corpus beckettiano è stato individuato dalla critica letteraria e traduttrice Nadia Fusini in B&B: Beckett e Bacon (1994), studio comparato su un’ossessione comune ai due artisti: “prendere possesso e visione della realtà dopo la caduta delle utopie estetiche”.

Quel talento nevrotico di Francis Bacon, che ha fatto propria la lezione cubista e surrealista mutandola in violenza e deformazione, è infatti un’altra valida traduzione dello spirito del XX secolo da analizzare in parallelo con il drammaturgo irlandese. In Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion (1944), per esempio, trittico capolavoro della sua maturità artistica, l’alienazione, l’isolamento e l’angoscia vengono resi attraverso tre figure storpie e sofferenti, pseudouccelli bendati e urlanti costretti in uno spazio claustrofobico, come in Malone muore (1951) di Beckett. Le bocche spalancate sui volti sfigurati sono un grido strozzato, uno slancio verso un altrove che non esiste e in cui nulla accade, come sul palcoscenico di Vladimir ed Estragon in attesa di Godot. Entrambi gli artisti tendono quindi a privilegiare la miseria umana, colta nella sua nudità più ripugnante e cruda in viaggio verso la dissoluzione estrema.

Beckett

Per ultimo, un confronto tra Beckett e Franz Kline nella scelta della sedia a dondolo come motivo ricorrente delle loro creazioni. Come Beckett in Murphy (1938), Film (1965) e Rockaby (1981), anche Kline, esponente di punta dell’informale americano, ha usato questo feticcio come correlativo oggettivo di una condizione interiore dell’individuo e del suo rapporto con la realtà esterna.

Se il padre del teatro dell’assurdo l’ha inserita nel suo anti-romanzo di formazione Murphy per caratterizzare lo stato di nirvana in cui scivola il protagonista, lasciandosi cullare in un esilio volontario dal movimento oscillatorio della sedia, il pittore la usa invece in una serie di ritratti di sua moglie Elizabeth V. Parsons, affetta da schizofrenia e depressione patologica.

In Woman in a Rocker (1945), in particolare, il disturbo cronico della donna viene rappresentato attraverso un volto vuoto, privo di lineamenti ed evanescente, sorretto da un corpo solido, monolitico, sbilanciato, come sull’orlo di un abisso.

Beckett

In entrambi i casi, dunque, la sedia a dondolo viene scelta per esprimere una malinconica deriva, un divorzio tra mente e corpo che rende il rapporto tra soggetto e realtà intermittente e precario. Perché cos’è l’arte – dice Beckett – se non “l’apoteosi della solitudine”?

È così che il vuoto esistenziale di un secolo torbido è stato tradotto su pagine, tele e palcoscenici nelle mutevoli declinazioni del genio artistico. Bacon ha scelto le espressioni sofferte dei suoi trittici asfissianti. Kline l’astrattismo dei suoi ritratti assenti e senza volto. Beckett le scenografie minimal e i dialoghi stitici del suo teatro o le trame ridondanti e auto-riflessive dei suoi libri, in cui non esiste progressione e i personaggi sono intrappolati nelle sabbie mobili del tempo. Bloccati in una condizione purgatoriale che non conosce espiazione, in cui “the end is in the beginning and yet you go on”. Perché solo il realismo crudo di un’arte fratturata e disturbante poteva parlare in modo trasparente ad un mondo raso al suolo.

Francesca Eboli

Vedi anche: L’utopia del ’68 ne L’Incredibile storia dell’Isola delle Rose

La Redazione

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