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Shibboleth di Doris Salcedo è la crepa di cui (non) abbiamo bisogno

Un volantino nero recita: «Attenzione, guarda dove metti i piedi nella Turbine Hall. Ti preghiamo di tenere sotto controllo i tuoi bambini».

Il volantino spiega che la crepa che si protrae lungo tutto il pavimento che percorre i 167 metri (548 piedi) della sala cavernosa della Tate Modern è un’opera di un’artista colombiana, Doris Salcedo, che si chiama Shibboleth.

Il termine deriva dalla parola ebraica «shibbólet» ( שִׁבֹּלֶת ), che significa letteralmente la parte di una pianta contenente semi (come una spiga di grano) o, in un contesto diverso, «flusso, torrente» o un taglio nella roccia in cui il fiume sgorga. Ma è la pronuncia del termine ad informare l’ascoltatore sulla provenienza della persona, come quando si cerca di capire se una persona è originaria di Londra o di Leeds in base alla pronuncia della parola «bathroom». 

Il termine «shibboleth» si riferisce a una parola, frase o abitudine che può essere utilizzata per verificare se un individuo appartiene o meno ad un particolare gruppo o regione. Fu usato per la prima volta in una storia dell’Antico Testamento in cui gli Efraimiti, sconfitti in battaglia dai Galaaditi, furono sfidati da quest’ultimi a pronunciare la parola «shibboleth» per poter fuggire attraverso il fiume Giordano. 

Gli Efraimiti non erano in grado di pronunciare il suono «sh» e di conseguenza tutti i 42.000 furono massacrati. 

Con questo in mente, la fessura del pavimento nell’installazione di Salcedo potrebbe essere vista come un simbolo del danno causato dall’esclusione culturale e geografica. Uno shibboleth è una prova di autenticità, un mezzo per separare l’amico dal nemico a causa di sottili linee linguistiche. Ma l’artista ha davvero preso un martello pneumatico per spaccare il pavimento della Turbine Hall? O stiamo guardando una scultura, qualcosa che ha realizzato e installato alla Tate Modern come qualsiasi altra opera d’arte mostrata lì?

Salcedo si rifiuta categoricamente di rivelare la risposta. Con una parte della nostra mente accettiamo completamente la realtà del pavimento incrinato, ma, con l’altra parte razionale, ci si chiede se ciò che gli occhi vedono possa essere vero. Inoltre, il titolo provocatorio complica l’opera invece di decodificarla. 

Quella spaccatura non rappresenta una conseguenza di un terremoto, non fisico almeno. Raffigura invece la separazione che esiste tra paesi occidentali e resto del mondo, tra poveri e ricchi, e definisce anche quella modernità europea che (con la complicità di dispositivi come il museo) ha costruito le proprie narrazioni, basate su relazioni di inclusione ed esclusione, su potenti amnesie e volontarie omissioni

Si tratta inoltre di congiungere quel passato al presente, alle ferite aperte della nostra contemporaneità, mettendole al centro del discorso estetico, etico e politico. I visitatori hanno contorto i loro corpi in modi infiniti mentre cercavano di vedere dentro la fessura, rischiando quasi di inciamparvi all’interno. La percezione dello spettatore si altera perché lui stesso percepisce lo spazio in maniera diversa, non si sente più al sicuro perché letteralmente in quella sala non c’è nient’altro da vedere

Non è possibile nessuna comprensione intellettuale: Shibboleth (che più che un’installazione è un intervento, quasi chirurgico, sulla pelle del museo) impone una percezione emozionale, che muova letteralmente il corpo. 

In questo senso i visitatori percorrono la frattura in tutta la sua lunghezza, come se sentissero il bisogno di seguirla, di suturarla o riempirla, o semplicemente di camminare sul bordo, di esporre se stessi al pericolo, alla paura, allo spiazzamento, alla vulnerabilità

Salcedo sta esponendo una frattura nella modernità stessa. Il suo lavoro ci incoraggia a confrontarci con le verità scomode della nostra storia e a riflettere su noi stessi con assoluta candidezza e senza autoinganno.

Theodor Adorno dice: 

«Dovremmo tutti vedere il mondo dal punto di vista della vittima. (…) Quindi, qual è la prospettiva di una persona che si sta tormentando in questa posizione?». 

Forse abbiamo bisogno di sentirci a disagio in un museo? 

Dopo un anno la cicatrice di quella crepa è ancora visibile, richiusa con il cemento per dare spazio alle installazioni di altri artisti, per continuare a ricordare e rendere visibili fratture della storia che sono percepibili solo per coloro che si preoccupano di vederle, e toccarle, e accettarle per sempre. 

Serena Palmese

Vedi anche: Tino Sehgal e un bacio tra le “cose” antiche

Serena Palmese

Mi piacciono le persone, ma proprio tutte. Anche quelle cattive, anche quelle che non condividono le patatine. Cammino, cammino tanto, e osservo, osservo molto di più. Il mio nome è Serena, ho 24 anni e ho studiato all’Accademia di belle Arti di Napoli. Beati voi che sapete sempre chi siete. Beati voi che sapete sempre chi siete.

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