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La nuova questione della lingua: il napoletano inclusivo

Siamo tutti esseri con la capacità di esprimerci e di comunicare.

Quando viaggiamo nei meandri più nascosti della nostra mente e vediamo cose che non hanno un nome, anche in quel caso abbiamo a disposizione qualcosa che ce le mostra in una maniera migliore: le parole, un immenso enorme groviglio che, pronunciato o scritto, è capace di descrivere qualsiasi cosa.

Forse parlo da amante della linguistica e delle lettere, ma le parole sono quanto di più bello possa esistere, e le lingue sono i tanti modi di esprimere miliardi di concetti comuni a tutti noi.

Le lingue sono in continua evoluzione, cambia tutto sotto ai nostri occhi e non ce ne accorgiamo neanche, eppure ci sono delle cose di cui abbiamo bisogno, non in prima persona, forse, ma le lotte più feroci e difficili, hanno sempre riguardato gli altri e non noi.

Ultimamente si sta sollevando un problema sulla questione dell’inclusione. Rendere una lingua inclusiva significa fare in modo che in un gruppo di persone miste non si adoperi il maschile sovraesteso. Sono tanti anni anche che molte lingue stanno cercando di cambiare la propria tradizione, modificando le parole che specificano il genere.

Sappiamo bene, infatti, che anche quando ci sono tutte donne ed un solo uomo, almeno in italiano, si parla al maschile. Non si tratta solamente della vittoria di un genere su un altro, ma di qualcosa di più profondo, che fino ad ora era celato.

Non è la parità dei sessi, il femminismo. È qualcosa senza un nome, senza definizione, eppure esiste ed è necessario. Non si è mai parlato o preso in considerazione il non-binary, espressione che si usa per indicare coloro che non si identificano in nessun genere.

Quello che sembra nuovo ai nostri occhi, è solo qualcosa che prima non era detto per paura del giudizio e di sentirsi sbagliati; le persone che guardavano erano indifferenti, si faceva finta di non vedere, si considerava tutto immorale, anomalo, tutto era motivo di scherno ed emarginazione. Eppure non ci siamo mai fermati davanti ai diritti, che fossero di un’intera popolazione o solo delle minoranze. L’uomo è quel che è: razzista, omofobo e tutti quei termini orribili che dovrebbero esistere solo come concetti astratti, invece ci troviamo ancora a combatterli. Allora è bene fronteggiare anche questa nuova lotta che potrà sembrare banale, ma non lo è affatto, perché dietro queste “piccole cose”, ci sono discriminazioni, ideologie che rendono grandi i problemi quotidiani di ogni persona, solo perché esistono in qualche misera mente contorta.

Allora, dire “sindaco donna” o “sindaca” non cambia tanto, cambia tutto. E se abbiamo lottato per arrivare alla parità per i nomi dei mestieri, allora dovremmo arrivare alla parità di qualsiasi cosa.


La sociolinguista Vera Gheno ha parlato di inclusione, e continua ancora ad essere attiva su questo fronte, specialmente sui social network e sulla sua pagina instagram piena di spunti interessati.

Proprio sui social network si vede l’uso diffuso di vari segni messi al posto della vocale che specifica il genere; il più utilizzato in Italia è l’asterisco, mentre in Spagna c’è la chiocciola. Sono tanti i segni presi in considerazione oltre questi, ma nonostante vadano bene per lo scritto, non possono essere riprodotti nel parlato, dovendo continuare a specificare la presenza di entrambi i sessi in un gruppo, ed anche tutti gli altri problemi che possono sorgere. Ciò che è necessario, secondo l’attivista, è l’uso di una vocale che possa essere pronunciata, ma anche scritta.

Questa vocale esiste e si tratta della “schwa”, la vocale centrale intermedia, utilizzata nell’alfabeto IPA per la trascrizione fonetica. Sembra essere sconosciuta, ma essa esiste in alcuni dialetti italiani, per esempio il napoletano, e anche in alcune lingue, come l’inglese.


Il napoletano sembra essere già inclusivo, ma è una cosa che riguarda solo il parlato, in quanto la sua peculiarità è la mancata pronuncia delle vocali finali. Quando, per esempio, nel parlato ci troviamo a salutare un gruppo di persone, diciamo “bonaser a tuttu quant”, sia che ci troviamo in gruppo misto, sia che vi siano solamente donne.

In italiano prevarrebbe la forma maschile, anche se ci sono tutte donne ed un suolo uomo. Nello scritto, però, ciò non avviene, perché queste ultime devono essere specificate secondo la norma ortografica, proprio per non deviare il significato morfologico della parola. A questo punto, se anche nello scritto si utilizzasse questa vocale, il napoletano potrebbe essere un dialetto totalmente inclusivo, e non è una cosa da poco, considerando il fatto che per l’italiano siamo ancora agli albori e l’idea della “schwa” è solo un pensiero.

Inoltre, bisogna pensare che è molto più difficile in italiano abituarsi a pronunciare quella vocale, poiché non lo abbiamo mai fatto prima, mentre in napoletano sarebbe più semplice e veloce, proprio perché esistente da sempre, e perché si tratta di un cambiamento solo scritto.


Ci sono parole in napoletano che sono scritte in modo simile al maschile e al femminile, come per esempio “i figli e le figlie” «’e figlie» “i figli” e «’e ffiglie» “le figlie”. Ciò che li rende diversi è il raddoppiamento della consonante iniziale che modifica il significato. Il fatto di essere scritti allo stesso modo fa pensare alla possibilità di un cambiamento. Questo è solo un caso, ma ci sono tantissime eccezioni, per cui non a tutte le situazioni sarebbe applicabile la regola.


Dalle varie situazioni che si possono riscontrare nel napoletano possiamo constatare quanto esso sia facilmente adattabile a questa nuova questione linguistica e cosa molto importante sarebbe che il napoletano sia molto più inclusivo di quanto lo sia l’italiano.

Antonia Di Leva

Vedi anche: “Un po’ come noi” che amiamo Gazzelle e che ameremo la serie “Nudes”

Antonia Di Leva

Sono un ossimoro e una scrittrice. Amo qualsiasi tipo d'arte. La poesia è la mia preferita: ne scrivo, la leggo, la vivo. Studiare è il mio diletto prezioso: quasi laureata in Lettere Moderne.

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