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Mai abusare di un diritto. La stampa dopata ai tempi del covid

Ci sono diritti per cui qualcuno prima di noi si è battuto, perché ne potessimo godere, perché potessimo, grazie alla loro lotta, a volte grazie al sacrificio delle loro vite, vivere in un mondo più libero.

Tra questi la libertà d’espressione, principio fondamentale perché una stampa possa definirsi autonoma, perché l’informazione possa essere davvero utile, perché un paese possa considerarsi davvero democratico.

Ma ci può essere un limite ad un diritto fondamentale come quello della manifestazione del pensiero?

No. La risposta ve la do subito, così evitiamo fin da subito inutili derive fasciste. Non si possono porre limiti alla libertà d’espressione, non si possono cucire bocche o filtrare informazioni, anche quando queste sono sbagliate, false, tendenziose, fuorvianti o diffamanti. Non è possibile perché censurare anche una sola voce, anche una sola fonte, per becera che sia, sarebbe un enorme salto nel vuoto, un passo indietro lungo qualche anno luce, uno sonoro schiaffo in faccia a chi la censura l’ha sentita bruciare letteralmente sulla propria pelle.

Lo penso, lo penso sinceramente, ci credo fermamente anche quando leggo esterrefatta l’ultimo titolo di Feltri, anche quando ascolto Sallusti che dice la sua, Gramellini che rovista nel baule dell’ovvio, Scanzi che condisce una stronzata con due parolacce per farla sembrare una notizia cazzuta. Credo fermamente che il solo loro respirare gli assicuri il sacrosanto diritto alla libertà d’esprimersi. Eppure, confesso che, durante questa pandemia, questo credo così forte e incrollabile ha vacillato, ha scricchiolato ed è stato lì lì per creparsi più e più volte.

È un momento storico delicato e non mi sento il più grande storico del ‘900 adesso che l’ho detto. È delicato perché ognuno di noi deve fare i conti, oltre che con le piccole miserie del quotidiano, con la paura, con il continuo conflitto tra le necessità dell’individuo e i bisogni della comunità, con il pericolo costante che le leggi sfondino gli argini delle libertà personali e inalienabili.

Questo momento, che per evitare di degenerare in un facile turpiloquio abbiamo diplomaticamente definito “delicato”, rende la stampa e i mezzi di comunicazione l’unico veicolo di informazioni, l’unico strumento per dissipare paure, per fare chiarezza, ma anche per dare regole, per invitare la collettività ad uno sforzo, per infondere coraggio, per dare l’esempio, per stigmatizzare una cattiva condotta, per avvertirci di un pericolo costante e tremendo ma dal quale è possibile proteggersi, contro il quale è possibile lottare.

La stampa ha il dovere di occuparsi di un momento delicato, di raccontarlo, di lasciarne traccia, di testimoniarne la difficoltà e le incertezze, ma ha anche il sacrosanto dovere di raccontarci cosa continua ad accadere fuori dal silenzio e dalla sicurezza delle nostre case, cosa accade oltre il virus, nonostante il virus.

Cosa accade di bello, cosa accade di brutto, cosa sta accadendo adesso, cosa non ha mai smesso di accadere, cosa viene detto o fatto, cosa non andrebbe più detto o fatto o, per esempio, che fine ha fatto Mark Caltagirone.

E invece non è così. Forse ci arrivo tardi a questa consapevolezza perché dall’inizio della pandemia, in quel marzo del 2020 che mi sembra il marzo del ’99, ho deciso volontariamente di non ascoltare, di filtrare al massimo le informazioni o a volte di evitarle deliberatamente: perché sapere troppo avrebbe avuto un effetto sul mio umore, sulle mie giornate già così diverse, sulla mia vita e sul mio lavoro che da un anno non hanno più la stessa faccia.

Ci ho messo tempo, ma me ne sono accorta che la stampa si è trasformata. È diventata un mostro invertebrato, senza una linea, senza una direzione, senza un’etica, senza una politica editoriale che differenzi una testata dall’altra. Una stampa dopata, drogata dalla pioggia di like e visualizzazioni di quei milioni di individui che hanno cercato nell’informazione un appiglio saldo. E come un drogato non è più disposta a fare a meno di quei like, a perdere neanche una di quelle visualizzazioni.

La stampa, da diversi mesi a questa parte, sembra aver trovato nel terrore, nelle paure, nella disperazione delle persone il suo elisir di lunga vita. In queste paure ci sguazza, le tracanna, le alimenta con una sovra-informazione continua, monotematica, isterica. Notizie inutili, ripetitive, tautologiche, notizie che non sono neanche notizie, affollano le principali testate, entrano nelle case attraverso social, telegiornali, notiziari, programmi di approfondimento, rubriche stupide, talk di quarta categoria.

Assodato, dunque che non si può mettere un limite ad un diritto per i motivi di cui sopra, si può, invece, abusare di un diritto? Sì, è possibile. È possibile che questa stampa dopata abbia perso di vista il proprio dovere, abbia anteposto le ovvie e, per carità, giustissime logiche della tiratura all’etica professionale, abbia perso il senso, il ruolo, la funzione che ha l’informazione, abbia barattato la propria credibilità con un mucchio di visualizzazioni. Abbia abusato del suo diritto di esprimersi liberamente.

È certamente accaduto questo. Altrimenti io non so come spiegarmi che notizie come quella del medico che ha contratto il virus sei giorni dopo un vaccino (che ha effetto solo dopo diverse settimane), o quella della morte per covid del padre di Valerio Scanu abbiano sfondato il muro del mio isolamento mediatico e siano arrivate sul mio cellulare.

Altrimenti io non so come spiegarmi perché non so che fine abbia fatto Mark Caltagirone.

Valentina Siano

Vedi anche: Nulla di più bianco della blackface

Valentina Siano

Valentina Siano, classe ’88, professoressa per amore, filologa per caso. Amo la scrittura come si amano quelle cose che ti riescono al primo colpo, non sapresti dire bene come. Scrivo di cultura e spettacolo perché amo il cotone verde del mio divano e il velluto rosso dei sediolini dei teatri. Leggo classici, divoro serie, colleziono sottobicchieri. Sono solo all’inizio della mia scalata alla rubrica gossip di Vanity Fair.

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