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Lettura d’ingrandimento: “La vita bugiarda degli adulti” di Elena Ferrante

Ho conosciuto Elena Ferrante grazie ad una compagna di università. Per tanto tempo l’avevo vista portarsi dietro alcuni volumi di cui mi avevano colpito le copertine a  mio avviso pacchiane e l’avevo vista leggere pensosamente quei libri, sottolinearli, apporre dei post-it colorati tra le pagine per non perdere questi o quei passaggi che l’avevano colpita, quasi la spaventasse l’idea, con essi, di perdere una parte di sé che aveva ritrovato con fatica.

L’immagine di quei volumi e delle loro copertine rimase per tanto tempo da qualche parte dentro di me; mi ritrovai per caso a chiederne notizie e uno di essi in prestito, che mi fu consegnato un giorno di metà luglio del mio secondo anno di università.

Cominciai a leggere il primo romanzo de L’amica geniale in metropolitana, durante il viaggio di ritorno verso casa dopo aver sudato per ore su un esame scritto, e ricordo di aver provato fin dalle prime parole una sensazione curiosa, fastidiosa e piacevole al contempo, quella di non aver bisogno di leggere quella storia perché in realtà la conoscevo già. Il senso di familiarità che doveva aver provato la mia amica ebbi l’impressione di provarlo anche io, non saprei dire se per una questione di genere, di età, di provenienza. Ho impiegato un anno a leggere la tetralogia, un anno carico di eventi, ognuno dei quali quasi simbolicamente accompagnato da quei romanzi per me incredibilmente densi e melmosi.

Credo di aver continuato a cercare la scrittura di Elena Ferrante perché vedevo in lei la capacità di restituirmi qualcosa di me stessa. Non parlo di una forse banale identificazione coi protagonisti o, più in generale, con i personaggi di una vicenda: parlo di una sorta di chiaroveggenza a tratti terrificante, schifosa, in grado di dare voce a cose al cui ammutolimento avevo votato tutta la mia vita.

Molto più di quanto mi aspettassi, tutto questo è accaduto anche con La vita bugiarda degli adulti. Mi sono trovata con grande stupore davanti ad alcune banali evidenze che fatico ancora a trovare tali e che ogni volta mi meravigliano anche solo un poco, soprattutto quando finalmente credo di aver imparato la lezione.

Mi riferisco in particolar modo all’esistenza di tutte le possibili versioni di una stessa storia, tante quante sono le teste degli uomini sulla terra, o all’inesistenza, quasi sempre, di un torto o di una ragione, creazioni artificiali spesso traballanti o addirittura invisibili.

O, ancora, al processo sorprendente, vagamente triste e forse doloroso di scoprire l’umanità e, con essa, la meschinità dei propri genitori, o alla constatazione della potenza del dolore, inferto, ricevuto, come indissolubile collante tra le esistenze. E ammetto di aver provato quasi un senso di sollievo nel leggere di alcune meschinità, bruttezze, obliquità, perché mi hanno fatta sentire meno meschina, brutta, obliqua.

Non so se le perplessità di Giovanna nel crescere siano quelle di tutti, ma di certo sono state le mie, così come l’ansia di strapparsi da dosso, sia pure con lordi atti simbolici, una vita domestica corrotta e l’inadeguatezza di un’infanzia marcente di cui bisogna oramai disfarsi senza troppi giri di parole, nel tentativo di crescere avendo come guida solo i silenziosi patti con sé stessi, per non tradirsi mai.

Ho sempre l’impressione che questa scrittrice riesca in qualche modo a farmi l’occhiolino, come se alcuni punti dei suoi romanzi mi dicessero, quasi a ridestarmi da una distratta fantasticheria: guarda che sto parlando con te. E questo mi innalza, mi fa sentire speciale, ma al contempo mi degrada, mi abbassa al livello di chiunque altro legga quegli stessi romanzi e si senta come me.

Ma proprio qui avviene il miracolo: quale che sia la propulsione, verso il basso o verso l’alto, Elena Ferrante mi ha sempre fatta sentire meno sola, ed è quello che è successo anche questa volta. Ho sempre stimato che fosse proprio questa, la preziosa e insostituibile ricompensa della lettura.

Francesca Grasso

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La Redazione

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