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Genere Napoli: l’indagine dietro al tormento

Napoli, secondo dopoguerra. Il mito americano e la strada verso la modernità. Una sola eredità: la disillusione. Presupposti e contenuto del “genere Napoli”.

Con la caduta del fascismo e l’avvento del capitalismo in Italia, l’uomo si trovò immerso un’atmosfera di rinascita. Il fervore mosso da questa nuova e apparente prosperità non poteva fare a meno di esaltare l’individuo. Queste forti spinte verso il “benessere” nazionale si possono tradurre con una semplice parola: industrializzazione. La città si trasforma in un luogo piatto e irriconoscibile, la provincia diventa periferia… e l’uomo si sveglia, ma anche questa volta troppo tardi. La bell’America che vista da lontano vestiva un immacolato mito, negli anni ’50 mostrò l’effetto di una dittatura differente, quella del capitalismo.

“Io credo, lo credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato la “società dei consumi”. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo. […]Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. […]Il che significa, in definitiva, che questa “civiltà dei consumi” è una civiltà dittatoriale. Insomma, se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo.” (Pier Paolo Pasolini)

Il rapporto tra periferia e città, natura e storia fu il cuore del dibattito letterario del secondo dopoguerra italiano. A riguardo, in quei decenni, si sviluppò nell’area partenopea un genere specifico: il genere Napoli. Sotto l’ala di questo genere si collocano tutti quei romanzi che analizzano profondamente le cause e le conseguenze del degrado urbano e sociale della zona campana, sentita come doppiamente isolata rispetto alle altre grandi città italiane. Napoli, lontana sia dal nascente triangolo economico, sia dai fatti della Liberazione, non venne però risparmiata dalla fagocitante modernizzazione. Questo studio, unito alla ricerca di una nuova narrativa da proporre all’intera nazione, spiega la molteplicità di figure retoriche utilizzate nelle opere di questo periodo.
Scelte spesso come espediente narrativo, esprimono altresì l’eredità di una delle invenzioni primonovecentesche più stravolgenti: la psicoanalisi. Infatti, immagini come la spirale, il labirinto o la nebbia veicolano il lettore all’interno dell’Io dell’autore, nella quale la ricerca incessante di una verità da svelare si fa tortuosa e profonda.
Esempi sono l’immagine della ferita in Ferito a morte di Raffaele La Capria, dove la natura, vista inizialmente come Vergine, viene invasa dalla Storia. Ed è qui che la ferita diviene ferita storica, e poi dell’uomo: ferito a morte dallo sfacelo urbano.
Di ispirazione lukacsiana è l’uso del “personaggio-tipo” che permette di mostrare da vicino le peculiarità di una società o più genericamente, di una città.
In Una vampata di rossore di Domenico Rea, famoso è il parallelismo tra la radiografia del cancro di Rita e la mappa di Toledo: si tratta di un paragone pungente che mette in relazione il degrado urbano della città di Toledo con la massa cancerosa che non lascerà scampo alla protagonista. La speranza di rivedere Rita in piedi, non c’è. Aldilà dello specchio si scorge Napoli, spacciata e irrecuperabile.
La disillusione dell’intellettuale si acutizza ancor più nei decenni a seguire, fino all’esasperazione delle rappresentazioni topografiche: prende forma il Surrealismo.
Dalla letteratura-testimonianza degli ultimi anni ’40 e dei primi anni ’50 si scivola nelle città storpiate degli anni ’60 e ’70, chiaro sintomo della distanza che le separa dai ricordi nostalgici degli autori della “generazione degli anni difficili”: nati negli anni ’20, crebbero durante il fascismo, vissero la guerra e successivamente la metamorfosi della nazione.
Come dare voce al caos generale? Come capire la realtà? Come spiegare alla società di essere vittime di un’ennesimo atto di prepotenza? Forse le risposte sono poco chiare, perlopiù ipotesi e pensieri, ma le abbiamo. Le riconosciamo nell’unico potere buono di quei decenni: nella denuncia spietata degli intellettuali. Vuoi attorno alle riviste, vuoi in un romanzo, non troviamo nulla che sia sfuggito allo sguardo attento e disperato degli autori.

Lisa Scartozzi

La Redazione

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