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La zattera della Medusa: un inferno galleggiante

di Luisa Ruggiero

‟Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare. Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della sabbia sterminata.”

Il mare che fa da sfondo e da soggetto al romanzo di Alessandro Baricco, Oceano Mare, e la sabbia, l’enorme distesa di sabbia sulla quale si è arenata la Medusa, la fregata della marina francese diretta in Africa nel luglio del 1816. È il tragico episodio che ha visto protagonisti 147 membri dell’imbarcazione militare, la quale una volta arenatasi, aveva a disposizione solo 6 scialuppe di salvataggio sulle quali sono saliti solo le più alte cariche a bordo. Per gli altri naufraghi l’unica speranza fu quella di costruire una zattera, la zattera della Medusa, appunto.

Questa enorme zattera, lunga venti metri per sette, divenne un vero e proprio inferno galleggiante. Nelle interminabili ore trascorse su quella zattera, anche a causa dei pochissimi viveri presenti a bordo, affamati e terrorizzati, gli uomini si trasformarono in bestie. Alcuni morirono nell’indifferenza dei compagni, altri vennero travolti dalla furia del mare e dalle condizioni atmosferiche. Al nono giorno si arrivò al cannibalismo: quelli che erano stati compagni di sventura cominciarono a divorarsi gli uni con gli altri, prima solo i cadaveri rimasti a bordo della zattera, successivamente si arrivò anche ad uccidere per mangiare.

Solo dopo tredici giorni la nave Argo raggiunge la zattera traendo in salvo i quindici superstiti (che dopo poche ore diminuirono ancora, poiché cinque di loro morirono sull’imbarcazione) ed è proprio quello il momento che il pittore Théodore Géricault decide di raffigurare sull’enorme tela che dedicherà alla tragedia.

L’opera segna la chiusura del Neoclassicismo, della perfezione e del rigore che ha caratterizzato la pittura di quel periodo ed è l’esempio di un nuovo modo di intendere l’arte: il Romanticismo. La composizione del dipinto è complessa e la sua impostazione crea pathos in chi la guarda, potremmo definirla teatrale, inoltre le dimensioni della tela sono davvero gigantesche (491 x 716 cm), atte ad impressionare l’osservatore odierno ma soprattutto dell’epoca: la vicenda fece molto scalpore ed il pittore raggiunse una discreta fama nonostante l’orrore suscitato dalla visione di quegli enormi corpi nudi e lividi.

Il cielo è plumbeo, ad indicare la tempesta appena scampata ma in lontananza si osserva brillare la luce dorata di un tramonto che annuncia l’imminente salvezza. I colori sono perlopiù terrosi e scuri, lividi come i corpi dei naufraghi morenti, l’unico colore che spicca è il rosso del mantello del padre che in un gesto di ultima estrema vitalità regge il corpo del figlio già morto. L’altro colore intenso lo ritroviamo sulla parte opposta della zattera nell’arancione della bandiera sventolata: il pittore crea una sorta di ultimo baluardo di vita attraverso i corpi dei naufraghi. La vita è lì, sotto quella bandiera in un crescendo emotivo e Géricault lo sottolinea attraverso i colori.

Il corpo riverso in primo piano chiude a destra la composizione e conduce l’attenzione al centro della scena, verso la diagonale creata dall’albero dell’imbarcazione, nel quale possiamo riconoscere il vertice della piramide immaginaria di cui si può individuare la base nella fine della zattera sulla sinistra della composizione. Questa prima piramide traccia di netto il confine tra lo sconforto e la speranza che intravediamo nell’altra piramide sulla destra della composizione. La differenza è visibile non solo nei colori ma nello slancio vitale dei protagonisti che si sbracciano protendendosi verso il cielo per essere messi in salvo dalla nave Argo che sta giungendo all’orizzonte.

Géricault, quando accadde la tragedia, aveva solo 27 anni ma questo non incise sulla sua perizia nel raccogliere informazioni e dati sull’accaduto, intervistò addirittura due dei sopravvissuti. Costruì un modellino della zattera, fece molti bozzetti preparatori ed impiegò molti dei suoi conoscenti come modelli per ricreare una certa veridicità scenica. Ed in effetti i corpi hanno dimensioni reali e sono estremamente precisi e delineati, ricordano la fisicità dei soggetti michelangioleschi, tutto ciò è sottolineato ed esasperato dalle tinte scure e drammatiche che mirano ad un intenso impatto visivo ed emotivo sugli spettatori.

La Redazione

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