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Omaggio a Milos Forman

di Matteo Vitale

Come si può descrivere in poche parole un uomo così? Milos Forman faceva film “larger than life” più grandi della vita. Era l’incarnazione vivente del cinema come vita e non della vita come cinema. Milos Forman è anche il simbolo di come contenuti europei con mezzi americani siano una ricetta esplosiva.

Se da soli gli americani fanno film stilisticamente e culturalmente poco elaborati, dall’altro lato gli europei curano poco l’esplosività dei ritmi e delle scene. Ecco, in Forman si trova il meglio delle due tradizioni occidentali.

Forman nasce nell’allora Cecoslovacchia da una relazione adulterina tra la madre e un architetto ebreo. Nei primi undici anni della sua vita vede sua madre deportata a Buchenwald e suo padre deportato ad Auschwitz.

Successivamente dovette emigrare negli Usa quando scoppiò la Primavera di Praga. Si dice addirittura che stesse preparando un’opera con il dissidente drammaturgo Victor Pavel.

Arriviamo così al primo film di produzione americana: si chiama Taking Off ed è una satira caustica del rapporto tra padri e figli negli anni Settanta alle prese con alcool e marijuana.

La storia è semplice ma paradossale: una coppia di genitori si iscrive all’associazione “Società genitori figli scappati”, dove impareranno a fumare e giocare a strip poker. Nel 1975 arriverà la consacrazione grazie ad un capolavoro tratto dal romanzo di Ken Kesey, esponente della beat generation e amico di Timothy Leary (quello delle sperimentazioni con l’LSD, per intenderci).

Stiamo parlando di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Manifesto esistenziale di intere generazioni di scoppiati. Affresco della meravigliosa allegria nella follia. Elogio del delirio controllato. Inno alla fuga dalla normalità. Insomma, un capolavoro senza tempo. Se poi ad interpretarlo c’è uno come Jack Nicholson, con quel sorriso mefistofelico, si capisce che siamo ad un passo dall’opera sacra.

Andrebbero costruiti templi per quel film, dove entrare a venerare scene spezzate e dipinte sui muri. No, non è un’esagerazione. Anche lo fosse, quel film spiega perché, come diceva Enzo Jannacci, “l’importante è esagerare”.

Ma è un film importante anche in quanto profezia sociale, dato che dopo aver chiuso gli istituti psichiatrici di quel tipo, lungi dallo sparire, la follia è diventata la norma e la società è diventata il manicomio. Ormai viviamo tutti nel nido del cuculo.

La lobotomia e elettroshock finale su Randle Patrick McMurphy è il simbolo dell’uccisione della vitalità, dell’imprevedibilità e della spontaneità anarcoide da parte della società. Chi non piange in quella scena è già assuefatto.

L’indiano (che in realtà nel libro è l’io narrante e quello che muore alla fine) rappresenta la saggezza della tradizione dei nativi, ancora collegati con le radici, che però non parlano più. Restano ammutoliti a contemplare senza scomporsi.

Quando però incontrano un uomo ancora vivo (come Chesterton intendeva “uomo vivo”) diventano una miscela magica capace di creare ancora quella meraviglia che l’infermiera fa di tutto per uccidere. Solo per questo film Milos Forman andrebbe beatificato: qualcuno chiami il Papa per le scartoffie.

Nel 1984, dopo vari film impegnati socialmente, torna alla grandezza degli inizi. Arriva il colossale Amadeus, la storia dell’invidia del compositore Salieri nei riguardi di un Mozart ridanciano e fanciullesco. Percorrere tutta la sua carriera sarebbe impossibile: ci limitiamo a nominare altri tre film che riteniamo imperdibili.

Larry Flint – Oltre lo scandalo, storia di un produttore di riviste porno che finisce in un processo che diventerà storico per la libertà d’espressione; il film Man on the moon, con la colonna sonora dei Rem, che narra la vita di uno dei comici più stralunati che siano mai nati, ovvero Andy Kaufman.

Ad interpretarlo c’era un Jim Carrey euforico che alla fine delle riprese si convincerà di essere la reincarnazione di Kaufman. Che ci creda veramente o meno è una domanda che non va mai fatta nella comicità Kaufmaniana – e comunque era così immedesimato nel personaggio che non ne usciva mai, neanche a fine riprese.

Conoscere l’opera di Milos Forman è uno dei piaceri della vita. C’è una frase in Man on the moon che descrive bene i tipi che piacevano a Forman: “ma sono solo che io penso che […] non dovremmo prenderci tanto sul serio?”

L’ultimo film che necessita di menzione è il suo manifesto stilistico, anche se non all’altezza degli altri: L’ultimo inquisitore. C’è Goya, cioè l’arte, c’è la persecuzione che subì, c’è l’illuminismo oscuro che stava arrivando. Goya è qualcuno che vuole solo essere lasciato solo e che non ebbe mai nessun tipo di coinvolgimento politico.

La Redazione

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