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La vita è narrazione: perchè raccontiamo storie?

Abbiamo mai pensato al perché ci piacciono così tanto le storie? Ci appassionano, ci mettono sulle spine, il loro ascolto dilata il nostro tempo e allieta le nostre giornate. Non parliamo poi del raccontare… quanto è bello narrarsi, dire qualcosa di sé agli altri e attendere le loro reazioni. Ma vi siete mai chiesti perché abbiamo la necessità di organizzare la nostra vita per storie? A questo domanda ha risposto l’immenso Jerome Bruner, padre della psicologia culturale.

Bruner iniziò ad interessarsi ai racconti della vita delle persone, ovvero alle loro autobiografie. Egli arrivò ad intuire che attraverso la narrazione della nostra storia non ci limitiamo solo ad attribuire un significato ad essa, ma anche chi ci legge, chi interagisce con noi, è artefice della costruzione di questo significato. In poche parole, le nostre vicende non volano al vento e basta, ma vengono filtrate in simboli riconosciuti dalla cultura di appartenenza, che le rende comprensibili ed interpretabili.

Pensiamoci un attimo: una narrazione è innanzitutto tale perché è interpretata! Ognuna di essa è dipinta dei colori delle emozioni, delle affermazioni che esprimono volontà o disimpegno, di negazioni e affermazioni, di vari “quando” e di precisi “dove”.

Ed è proprio attraverso questi elementi che il racconto prende una forma personale, che non trascende né da chi la racconta né da chi ascolta. Questi fattori, dice Bruner, ci portano in presenza del “Sé”. Infatti egli li definisce “indicatori del Sé” ovvero, rappresentazioni letterali del nostro agire psichico che trovano forma nella grammatica e che delineano i contorni del nostro Sé.

Ad esempio, un racconto con numerose affermazioni come “mi prendo la responsabilità di… mi oppongo ad…” sono indicatori di impegno perché fanno riferimento a termini di adesione/opposizione a istanze normativo-valoriali.

Dunque tendiamo a costruire il nostro Sé tramite la narrazione, organizzando la nostra vita attraverso essa attraverso la grammatica. Ma non si tratta solo di costruirsi e basta, la risposta è semplicemente complessa: è più facile costruire per storie! O meglio, è più intuitivo un pensiero narrativo.

Ma che cos’è questo pensiero narrativo? Bruner circoscrive due grandi province linguistiche della nostra mente che ci permettono di organizzare la realtà, queste sono il pensiero narrativo o sintagmatico e il pensiero logico-scientifico o paradigmatico.

Mentre il pensiero logico-scientifico organizza la realtà meccanicamente, analizzando la realtà attraverso l’oggettività e la raccolta dati, il pensiero narrativo fa ordine nella nostra vita decodificando la complessa struttura delle relazioni sociali, dove non è possibile fare alcuna previsione circa il comportamento degli altri.

Questo pensiero dunque, tiene conto dell’intersoggettività, dell’interazione tra gli individui; prende in considerazione della stima tra due persone, dell’odio, dell’amore, della causa e del fine dell’azione.

Bruner ci insegna che la parola è un ponte che costruiamo per collegarci agli altri; una struttura solida e affascinante con cui ci colleghiamo ai mondi interni dell’Altro, interagiamo ed erigiamo significati importanti in cui veniamo riconosciuto come persone appartenenti ad una cultura, esseri umani ricchi di senso.

di Ferdinando Ramaglia

La Redazione

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