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Come costruire un codice morale su un sacchetto della spesa: “Cattedrale” di Raymond Carver

di Marianna Allocca

Abraham B. Yehoshua, professore di letterature comparate dell’università di Haifa, ritiene che lo sviluppo dei personaggi costituisca un criterio di prima importanza ai fini della formulazione del giudizio estetico di un’opera letteraria.

Le sue preferenze vanno indiscutibilmente a quelle opere che non si accontentano soltanto di descrivere intricate situazioni umane, ma che riescono anche a far capire al lettore l’evoluzione dei personaggi. Yehoshua ci convince del fatto che lo sviluppo di un soggetto e la sua crescita intellettuale nel corso di un’opera debbano costituire l’ambizione di qualsiasi scrittore di romanzi. Quando a questo sviluppo intellettuale si accompagna una maturazione morale, allora ci troviamo di fronte a uno scritto del tutto eccezionale.

Ciò accade nel breve e semplice racconto di Raymond Carver presente nel romanzo “Cattedrale” in cui vi è una scena molto significativa ed emozionante tra Robert, un assistente sociale affetto da cecità, e il narratore del romanzo, nonché marito della donna, la quale leggeva al cieco dei documenti amministrativi legati al suo lavoro nel dipartimento distrettuale di assistenza sociale, e per questo motivo erano diventati amici.

Scena emblematica del racconto di quella cena è l’ultima parte della serata passata davanti al televisore da Robert e il narratore, durante la trasmissione di un documentario sulle cattedrali.

Fin dal primo momento dell’incontro dei due uomini, Carver ci mostra in maniera cristallina l’ostilità del narratore nei confronti del cieco: “Il fatto che fosse cieco mi infastidiva”, frase che ci può sembrare carica di discriminazione e pregiudizio.

In realtà, la vera causa della reticenza del narratore sta nell’equivocità morale della posizione del cieco (in questo caso simbolo di disabilità) di fronte al sistema di diritti e doveri esistenti fra persone non affette da problemi del genere. “Un cieco in casa mia non era il mio ideale” questo è dunque l’argomento del racconto sul quale si innesta lo sviluppo morale del narratore.

Innanzitutto, Robert si presenta come una persona la cui cecità non costituisce il lato più importante della vita. Non porta occhiali scuri per nascondere il suo handicap durante la loro prima conversazione e, per confutare tutti gli stereotipi sui ciechi, coglie persino le occasioni offerte dalle provocazioni del narratore, che si comporta senza alcun riguardo per la sua menomazione. Robert si rende partecipe in tutto e accetta l’invito di fumare uno spinello con il narratore, il quale lo invita per togliergli quel resto di perbenismo che, secondo l’uomo, tendono a mostrare i disabili per guadagnarsi la commiserazione da parte di altri.

Per quanto il comportamento di Robert non sia del tutto spontaneo, probabilmente è funzionale alla sua delicata missione educativa nei confronti del padrone di casa; in fondo, cieco o non, chi non darebbe una lezione di vita ad una persona incomprensiva?

Il momento luminoso, nobile, ma anche estremamente significativo per le successive relazioni che si stabiliranno fra il cieco e il protagonista, giunge al culmine quando in televisione trasmettono un documentario sulle cattedrali in Europa. Astutamente il cieco chiede al padrone di casa di descrivergli un po’ quello che si vede, poiché nonostante il whisky, l’hascisc, il televisore a colori che ha in casa, l’assenza di occhiali neri non può comunque vedere ciò che gli piacerebbe vedere. Così, nel momento di descrivere ciò che il narratore vede, le difficoltà vengono a galla. Risulta difficile tradurre in parole le immagini! Allora il padrone di casa può rendersi conto della differenza abissale tra il vedere e l’essere cieco.

Il cieco chiede di fare qualcosa per ridurre questo abisso tra il vedere e il non vedere. La verità è che gli impone il dovere morale che esiste nei confronti di chi è veramente bisognoso di aiuto. Robert propone di superare l’incapacità verbale dell’uomo disegnando insieme a lui una cattedrale su un foglio, ma siccome il narratore non lo trova, svuota un sacchetto della spesa per ricavarne un pezzo di carta. Gesto che scavalca l’ostilità, il cinismo e la diffidenza morale iniziali del protagonista, in virtù di un profondo convincimento personale, in pietà e soccorso. È un diritto del cieco avere un’idea abbastanza precisa del mondo.

De facto, mentre disegnano la cattedrale insieme, il protagonista accetta di sprofondare con Robert, per un attimo, nelle tenebre della cecità. “Gli occhi li tenevo ancora chiusi. Ero nella mia casa. Questo lo sapevo, ma era come se non fossi dentro a niente. Grandioso”, disse il narratore.

Il romanzo di Carver è un esempio per noi tutti; ci dà l’input per indentificarci con loro che − seppur clinicamente e socialmente etichettati come diversi, ultimi della società − sono umani, nostri simili, e anche se non hanno la facoltà di vedere il mondo così com’è, hanno la capacità e la sensibilità di percepirlo.

I nostri occhi sono i loro cuori, così nobili nel sentire e capire un atto d’amore e di rispetto.

disegno di Arianna Vilbi 

La Redazione

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