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La terra del latte e del miele

di Domenico Chirico  

Dio aveva promesso ad Abramo la terra dove scorreva latte e miele, aveva cibato il suo popolo facendo piovere la manna dal cielo mentre richiudeva il Mar Rosso sull’esercito del Nilo. Dio aveva posto le dodici tribù di Giacobbe nella Palestina, aveva fondato il tempio, costruito la città dove fu crocifisso Cristo e dove gli ebrei, popolo eletto, avevano continuato ad attendere la venuta del messia un po’ dubbiosi sul se il Re dei Giudei fosse già venuto senza che loro se ne rendessero conto. Finché le loro rivolte da popolo eletto non toccarono il culmine, il popolo di Dio, riottoso e incapace di governarsi da solo, si ribellò all’esercito romano e fu, sotto Tito, la distruzione del tempio e la diaspora per il mondo.

Gli ebrei si dispersero per il mondo e solo con la fine dell’Ottocento iniziarono a tornare verso la terra che avevano sempre desiderato e voluto. La Palestina diventò un protettorato inglese, dopo la fine dell’Impero Ottomano (1919) e sotto il governo di sua maestà gli ebrei iniziarono a tornare in patria organizzandosi in piccole comunità (kibbutz).

Di lì a poco il movimento sionista si schierò per l’appropriazione della Palestina in mano ebrea come stato di Israele. Quello che i palestinesi scordarono è che la Palestina era già densamente abitata, che durante i secoli di diaspora le famiglie arabe avevano abitato la zona, coltivato la terra, si erano trasmessi le proprietà di padre in figlio, facendone la loro casa. In poco tempo la popolazione ebraica aumento dal 7% del 1918 al 33% del 1945 (anche a seguito delle persecuzioni naziste in Europa). Gli scontri nel protettorato inglese diventarono all’ordine del giorno, i palestinesi si vedevano togliere terre e case che gli ebrei, ricchi e portatori del progresso tecnico occidentale comprarono per poco o niente impoverendo sempre più i palestinesi, dall’altro canto gli ebrei sentivano i palestinesi come occupanti di quel suolo e di quelle terre che a loro Dio aveva concesso ai tempi di Abramo.

La situazione fu rimandata dalla Gran Bretagna nelle mani dell’ONU che si pronunciò per la formazione di due stati uno Israeliano e un altro palestinese. Agli Israeliani fu assegnato il 59% del territorio mentre ai palestinesi il restante 41%. Gerusalemme diventava città libera, sotto l’amministrazione delle potenze internazionali.  La decisone fu subito rifiutata in toto dai palestinesi che pure essendo due terzi della popolazione si vedevano assegnati una parte più piccola del territorio, senza sbocchi né sul mare né sul Mar di Galilea (maggiore risorsa idrica della regione). Inoltre moltissime famiglie palestinesi avrebbero dovuto emigrare dalla loro terra d’origine poiché ricadeva nei territori dello stato d’Israele.

Gli israeliani accettarono la risoluzione ONU pur contestando la non contiguità territoriale delle zone a loro assegnate. Nel 1948 nacque lo Stato d’Israele. Gli stati della lega Araba (ovvero gli stati del nord Africa, del Corno d’Africa e del Medio oriente) non riconobbero Israele e scatenarono la prima guerra arabo-israeliana. Israele grazie alle armi occidentali e ad un esercito in parte costituito da veterani riuscì non solo a respingere l’avanzata dei palestinesi, ma anche a conquistare e occupare moltissimi territori che sarebbero dovuti appartenere all’ONU e allo Stato palestinese. Non furono prese solo la famosa Striscia di Gaza e la Cisgiordania (ovvero la zona limitrofa al fiume Giordano).

Con la guerra dei sei giorni nel 1967, in un’avanzata aerea lampo le forze israeliane riuscirono a prendere (anche perché i palestinesi non possedevano una propria forza aerea che non fosse quella della Lega Araba) tutta la penisola del Sinai, dei territori a nord, che di fatto erano della Siria, ad occupare tutta la Cisgiordania e a prendere Gerusalemme est.

Così molti all’interno dello Stato di Israele iniziarono a teorizzare un “Grande Israele” che andasse dal Nilo all’Eufrate. Intanto, nel 1964 nasceva in ambito arabo-palestinese una nuova organizzazione che si svincolerà dalla Lega Araba per divenire l’unica rappresentante internazionale del popolo palestinese, l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), guidata fino alla sua morte dal leader Yasser Arafat.

Con la guerra del Kippur, nel 1973, si chiuse in maniera abbastanza efficace la fase internazionale del conflitto, infatti grazie all’intervento dell’ONU l’Egitto riconobbe, seguito da molti altri stati della Lega Araba, lo stato d’Israele.

Intanto l’occupazione Israeliana proseguì lentamente, gli ebrei ammodernarono il loro stato creando tutti i confort e i servizi di un comune stato occidentale andando sempre di più però ad erodere lo spazio vitale dei palestinesi che pure rimaneva la maggior parte della popolazione. Su quest’onda di esasperazione fu dato inizio nel 1987 alla prima Intifada, una guerriglia poverissima con cui le più giovani fasce di popolazione palestinese iniziarono a tirare pietre sui carrarmati israeliani. La repressione dei moti da parte di Israele fu durissima e moltissimi minori furono incarcerati.

In tutto ciò l’OLP sul piano diplomatico accettò e riconobbe l’occupazione di alcuni territori ad Israele ma in cambio ottenne il riconoscimento della sovranità sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza (tutto ciò provocò dei dissensi interni tra i palestinesi che sfociarono nella costituzione del gruppo estremistico Hamas).

Il 9 settembre 1993 Arafat e il premier laburista israeliano Yitzhak Rabin si scambiarono lettere con cui l’OLP riconosceva “il diritto dello Stato di Israele di esistere in pace e sicurezza” e rinunciava al terrorismo, mentre Israele riconosceva l’OLP come rappresentante del popolo palestinese. Il 13 settembre, a Washington, alla presenza del presidente americano Bill Clinton, Arafat e Rabin firmarono pubblicamente gli accordi di Oslo, in base ai quali Israele si sarebbe ritirato dalla Striscia di Gaza e dall’area di Gerico in Cisgiordania e le avrebbe lasciate amministrare da un’autorità di auto-governo palestinese ad interim per cinque anni, detta Autorità Nazionale Palestinese (ANP), in attesa di un accordo definitivo.

L’accordo definitivo sembrava si dovesse raggiungere nel 2000 a Camp David dove il leader Israeliano propose ad Arafat uno Stato palestinese sul 90% della Cisgiordania e il ritorno dei rifugiati palestinesi nello Stato palestinese, ma non in Israele (dal quale erano stati cacciati anni prima dopo l’esproprio delle loro proprietà). Tuttavia Arafat pretese che i palestinesi potessero tornare tutti alle loro case e gli accordi andarono in fumo.

Le tensioni esplosero in una seconda Intifada, molto più violenta della prima, che comportò grosse perdite di civili e vari attacchi kamikaze da parte palestinese a cui l’esercito israeliano rispose con l’occupazione di alcuni territori e la costruzione di un muro tra i palestinesi ed ebrei.  Dal duemila in poi la situazione di stallo si è creata per lo più nella Striscia di Gaza, piccola parte di territorio palestinese sul Mar Mediterraneo, centrale per il passaggio di oleodotti e navi cisterne che de facto è amministrata da Hamas, nonostante lo stato di assedio in cui vive a causa delle forze israeliane schierate lungo i suoi confini e dei frequenti raid aerei.

Ultimo atto della lunga guerra resta la decisione del trasferimento dell’ambasciata americana d’Israele a Gerusalemme, riconoscendola di fatto come capitale e andando sempre di più ad intaccare il suo ruolo di città libera e divisa tra popoli. Volendo lasciare da parte qualsiasi interpretazione, l’unica cosa che si può chiedere è la libertà violata di un popolo come quello palestinese che rischia di scomparire in una terra promessa come quella in cui sarebbe dovuto scorrere latte e miele e che ora è rigata solo di calce e sangue.

 

 

La Redazione

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