Mona Hatoum: l’intimità disgregata nell’arte della diaspora

L’arte contemporanea è spesso un luogo di riflessione sul corpo, sullo spazio e sulle tensioni che attraversano le esperienze umane più universali. Tra gli artisti che più hanno saputo interrogare queste dinamiche, Mona Hatoum emerge come una delle voci più potenti e inquietanti.
La sua arte, che naviga tra il personale e il collettivo, tra il privato e il politico, mette in discussione le nozioni di casa, esilio, sicurezza e vulnerabilità. Nata a Beirut e costretta all’esilio a causa della guerra civile, Hatoum ha utilizzato la sua biografia come punto di partenza per affrontare tematiche universali legate alla condizione umana, alla perdita e alla lotta per il controllo dello spazio. Le sue opere, che spaziano dalla scultura all’installazione, sono tanto fisiche quanto concettuali, e costringono lo spettatore a confrontarsi con il proprio corpo e la propria percezione dello spazio in modo diretto e, talvolta, scomodo.
Il corpo e lo spazio: “Home” e la dicotomia tra sicurezza e alienazione
Uno degli aspetti più affascinanti dell’opera di Mona Hatoum è la sua capacità di ridefinire e destabilizzare il concetto di “casa”. “Home” (1999) è un esempio emblematico di come l’artista utilizzi oggetti quotidiani per esplorare la condizione dell’esilio e della vulnerabilità. In questa installazione, Hatoum ricrea una casa con materiali comuni, ma trasformati in modo tale da rendere l’ambiente familiare per poi renderlo inquietante. La casa che Hatoum costruisce non è un luogo sicuro, ma piuttosto un luogo in cui il corpo è sempre in pericolo, esposto a minacce viscerali.
L’oggetto che simboleggia la casa, in questo caso, diventa una prigione, un luogo che dovrebbe proteggere ma che invece esprime alienazione e disagio. La superficie morbida di un divano, ad esempio, viene sostituita da materiali duri e taglienti, creando una frattura tra la promessa di conforto e la realtà del rischio. Questo gioco tra familiarità e pericolo è una costante nell’opera di Hatoum, che trasforma la casa in un campo di battaglia emotivo, un luogo in cui l’intimità e la sicurezza sono costantemente messe in discussione.
L’esilio e la diaspora: “Measures of Distance”
Un altro lavoro significativo di Mona Hatoum è “Measures of Distance” (1988), un video che fonde immagini di casa e di distacco, attraverso la rappresentazione di sua madre, che viveva in Palestina. L’opera esplora il tema dell’esilio, mettendo in relazione il corpo femminile con il dolore della separazione. La madre di Hatoum, ripresa in un momento intimo, diventa una figura simbolica di ogni donna che vive in esilio, la cui identità è forgiata dal distacco fisico e emotivo. In questo lavoro, Hatoum racconta un dolore universale: quello di chi è costretto a vivere lontano dalla propria terra d’origine, e la costante ricerca di una casa che non esiste più.
“Measures of Distance” è un’opera che trasforma la ripresa del corpo e dei sentimenti in un atto di memoria e di riconciliazione. Le immagini della madre si sovrappongono a quelle della figlia, creando una relazione complessa che va oltre la semplice separazione geografica. Il video, con la sua intimità cruda, ci invita a riflettere su quanto la memoria sia fragile e su come il corpo diventi il campo in cui si scrivono le cicatrici di un esilio che non finisce mai.
La violenza insita nell’ordine: “Light Sentence”
Nel 1992, Hatoum realizza “Light Sentence”, una delle sue installazioni più potenti, che riflette sul concetto di prigionia. Un insieme di gabbie sospese in aria, piene di lampadine fluorescenti, che proiettano ombre di prigionieri su un muro, crea un contrasto inquietante tra l’idea di libertà e quella di costrizione. Le luci fredde e metalliche sembrano suggerire una rigida separazione, mentre la prigione stessa si trasforma in un simbolo della condizione umana moderna: intrappolata tra la ricerca di sicurezza e la consapevolezza del suo carattere transitorio e instabile.
Quest’opera mette in evidenza un altro elemento chiave del lavoro di Hatoum: la tensione tra ordine e disordine, tra controllo e caos. Le gabbie, pur nella loro apparente struttura ordinata, suggeriscono una violenza intrinseca, un tentativo di creare un equilibrio che finisce per imprigionare l’individuo. Così, l’arte di Hatoum si fa specchio della società contemporanea, in cui le strutture che dovrebbero garantire sicurezza diventano, in realtà, simboli di oppressione e alienazione.
La politica del corpo e la solitudine dell’individuo
Un’altra delle riflessioni costanti nel lavoro di Mona Hatoum è l’interrogazione sulla condizione del corpo umano, che è sempre esposto, sempre vulnerabile, in un mondo che sembra rifiutare la propria fragilità. “Undersurface” (1994) è un’opera che esplora questa condizione in modo estremamente fisico, con un tappeto rosso che, una volta sollevato, rivela un paesaggio inquietante, un luogo nascosto dove il corpo, simbolicamente, non trova mai rifugio. La superficie liscia e accogliente del tappeto nasconde l’inferno sottostante, un contrasto che rinvia alla natura incerta del nostro rapporto con lo spazio e con gli altri.
Il corpo, in Hatoum, è sempre un campo di battaglia, un luogo in cui si riflettono le dinamiche di potere, di violenza, di oppressione. Ma è anche, paradossalmente, l’unico luogo in cui è possibile sperimentare una resistenza, una lotta per la propria identità e autonomia. La solitudine dell’individuo, la sua separazione dal mondo, si fa fisicamente tangibile nelle opere di Hatoum, che mettono in scena l’impossibilità di trovare un posto sicuro.
Lucia Russo
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