Recensione di “Il rapimento di Arabella”

Una giovane ragazza con fragilità cognitive, in preda ad una crisi esistenziale, crede di aver incontrato la sé stessa bambina. Decide così di condurla dalla donna che a 10 anni voleva farle diventare una ballerina, convinta di aver avuto una seconda possibilità per cambiare il presente e avere una vita migliore.
Il road movie della regista Carolina Cavalli è stato presentato all’82ª Mostra del cinema di Venezia, aggiudicandosi il Premio Orizzonti per la miglior interpretazione femminile per Benedetta Porcaroli, che nel film interpreta il ruolo di una delle due protagoniste, Holly. L’incidente scatenante del film si sviluppa nel parcheggio del fast food “Taco King”, dove Arabella, una bambina di circa 10 anni interpretata da Lucrezia Guglielmino, è stata accompagnata dall’autista per ordine del padre (Chris Pine) che non sopportava più i suoi isterici capricci.
Arabella si aggira nel parcheggio facendo finta di zoppicare, ed è proprio questo che trae in inganno Holly: anche lei da bambina faceva finta di zoppicare per non andare a danza e così avvicina la bambina chiedendole il suo nome. La furba Arabella vuole scappare dall’autista del padre e dalla sua vita e coglie l’occasione al balzo. Dice di chiamarsi Holly, e così la Holly grande ha un’illuminazione: portala a Santa Cruz, per farle intraprendere la carriera da ballerina e cambiare per sempre la sua vita.
Così lo spettatore, quasi come un terzo passeggero all’interno della macchina di Holly, intraprende questo viaggio insieme alle protagoniste, che scena dopo scena, si delinea come un commovente nonsense italiano. La corsa che Holly fa contro sé stessa alla ricerca di un’altra possibilità da dare al sé bambino, si trasforma anche in una corsa contro la polizia, allertata della scomparsa di Arabella.
Il lungometraggio, dalla durata di 1 ora e 47 minuti, è veramente particolare e piacevole. Raggiunge il suo picco massimo verso la fine, dove la tensione delle inquadrature statiche e dei personaggi goffamente impostati culmina in un falsato dialogo tra le due protagoniste, che non può che stringere il cuore a chi ha un conto in sospeso con la propria infanzia.
Ad un certo punto Arabella dice: “Non posso lasciarla da sola, non ha nessuno” e capiamo finalmente chi è la grande e la responsabile fra le due. Questo dialogo, insieme ad un poliziotto che comunica per radio l’intenzione di sfruttare il collega innamorato, sono i punti in cui la sceneggiatura riesce quasi ad arrivare all’altezza dell’idea del film, che resta la cosa migliore del lungometraggio, ma pecca di una regia troppo forzatamente impostata, con inquadrature che sembrano quasi delle fotografie. Non osano mai troppo e non trasmetteno fino in fondo anche a livello visivo il mood fiabesco con cui la regista ha impostato la sceneggiatura, essendo accompagnate da una cinematografia fredda, che probabilmente avrebbe reso di più con una trasposizione in pellicola.
Francesco Vacca
Photo credits: MUBI
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