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Almond Mom e Diet Culture: una nuova forma di genitorialità, un trend social o un abuso psicologico?

Nel 2013, su Netflix, una madre sussurra alla figlia adolescente una frase che, apparentemente innocua, diventerà il simbolo di un’intera tipologia di genitorialità: “Prendi qualche mandorla e masticala bene”. Nasce così la generazione Almond Mom. 

Quella frase, pronunciata da Yolanda Hadid alla giovanissima figlia Gigi Hadid durante un servizio fotografico, ha fatto il giro del mondo, trasformandosi in un hashtag con oltre 268 milioni di visualizzazioni su TikTok. Le almond mom, le “mamme mandorla”, sono entrate nella narrazione contemporanea, e dietro quel nome quasi ridicolo c’è una realtà complessa, inquietante, che tocca in profondità la psiche di una generazione di giovani donne cresciute sotto il peso di uno sguardo critico che non perdona.

Attribuire tutto a Yolanda Hadid sarebbe ingiusto, però. Le almond mom non sono nate nel 2013, ma molto prima, nel momento in cui la cultura occidentale ha deciso che la magrezza fosse sinonimo di valore morale, che il corpo femminile rappresentasse un territorio da conquistare e controllare, che l’alimentazione fosse una questione di disciplina, non di nutrimento. Yolanda Hadid è soltanto il volto illuminato dalla telecamera di ciò che accade nelle case di milioni di famiglie, dove il rapporto con il cibo è stato trasformato in una lotta, dove la fame viene invalidata non come sensazione biologica ma come confessione di debolezza.

Un’almond mom non è semplicemente una madre attenta alla salute: è una madre per la quale l’alimentazione è diventata un’arena morale, uno spazio dove misurare la propria virtù attraverso la negazione, è quella che risponde “La tua non è vera fame, sei annoiata!” alla figlia che dice di avere lo stomaco vuoto. È quella che offre carote appassite per merenda, che conta i fusilli del piatto, che non permette il sale perché “fa venire la cellulite”, che sussurra nei momenti di debolezza il mantra “Un istante sulle labbra, una vita sui fianchi”.

Il malessere è ereditario. Essere un’almond mom diventa una missione transgenerazionale. Non si tratta soltanto di una madre anomala, si tratta della trasmissione di un disturbo emotivo e comportamentale che si annida negli strati più profondi dell’identità femminile.

Il rapporto di un bambino con il cibo non è mai puramente biologico. È profondamente legato al contesto familiare, al modello di attaccamento e alla figura materna quale portatrice di significati. Quando una madre gestisce l’alimentazione in modo rigido e restrittivo, non sta trasmettendo competenze nutrizionali. Sta trasmettendo un messaggio che si incide nella mente del figlio, soprattutto se femmina: il tuo valore dipende dal tuo aspetto, il tuo corpo è qualcosa di cui vergognarsi e la fame è un nemico da combattere, non un segnale da ascoltare.

Se la mamma è impegnata in un comportamento alimentare restrittivo, è statisticamente più probabile che la figlia faccia lo stesso. Il modello genitoriale diventa la mappa dell’anima, l’impronta secondo cui costruire la propria relazione con sé stesse. E quando quella mappa è disegnata attorno al controllo, alla privazione, al giudizio, la figlia crescerà con un’interiorità colonizzata dall’occhio critico materno.

Le conseguenze sono misurabili e terrificanti: le figlie delle almond mom presentano alti livelli di disturbi alimentari come anoressia, bulimia e ortoressia (l’ossessione patologica per il cibo “pulito” e “sano”). Ma il danno non si limita al comportamento alimentare, si estende a una disfunzione profonda dell’autopercezione e dell’autostima.

Una giovane donna cresciuta sotto lo sguardo materno ossessionato dal peso sviluppa una condizione che gli esperti conoscono bene: la dismorfofobia, la percezione distorta del proprio corpo. Ogni riflesso nello specchio diventa un’interrogazione e un’accusa, il corpo non è più il luogo da abitare, ma il nemico che tradisce, il fallimento ambulante della propria inadeguatezza.

Le ragazze cresciute con questo tipo di madre sperimentano l’ansia da prestazione fisica sin dall’adolescenza. Lo sport non è più uno spazio di piacere, di scoperta dei propri limiti e di libertà, ma un’arena di castigo, un modo per bruciare il danno provocato da un pasto non controllato. L’esercizio fisico si trasforma in strumento di mortificazione. Ogni momento sedute davanti ad un libro o a un film è accompagnato dal ronzio di colpa: avrei dovuto correre un chilometro in più.

C’è un costo ancora più subdolo: la sindrome della “brava bambina”. Le figlie delle almond mom imparano che l’amore è condizionato, che l’accettazione arriva solo quando si raggiungono gli standard imposti, quando il corpo rientra nei parametri, quando la fame viene domata. Sviluppano una relazione basata sulla transazione: se mi controlla, mi ama. La confusione tra amore e controllo si sedimenta e, da adulte, cercheranno partner che le dominano perché quello è l’unico modello di intimità che conoscono.

LA DIETA COME IDENTITÀ: QUANDO L’ORTORESSIA DIVENTA EREDITÀ

L’ortoressia, che affligge spesso le madri almond, viene trasmessa alle figlie come se fosse una virtù. L’ortoressia è l’ossessione per il cibo “giusto”, per la purezza alimentare, per l’eliminazione progressiva di categorie intere di alimenti etichettati come “tossici”. Non è salute, è una malattia mascherata da benessere.

L’almond mom che pratica digiuno intermittente, che consuma solo brodo a pranzo, che si vanta di mangiare magro, non sta insegnando a sua figlia come stare bene, sta insegnandole che il corpo è un progetto di riparazione infinito, che non c’è mai una versione di sé buona, che la vigilanza deve essere perpetua… 

Anche Gwyneth Paltrow è stata identificata come almond mom per aver condiviso pubblicamente il suo regime: brodo, niente carboidrati, almeno un’ora di esercizio quotidiano. Le sue figlie cresceranno convinte che questa sia la normalità.

Le almond mom non sono anomalie, sono il sintomo visibile di una malattia culturale molto più vasta, quella che si chiama “diet culture”, la cultura della dieta. È una struttura sociale che ha trasformato il rigore alimentare in virtù morale, che ha convinto generazioni di donne che il controllo ossessivo del corpo sia sinonimo di autodisciplina e valore personale.

Le almond mom prosperano in questa cultura tossica. Ne sono le portatrici inconsapevoli, le sacerdotesse non riconosciute di un culto che spaccia deprivazione per devozione. La società non le punisce, le celebra sottilmente, attraverso la validazione dei social media, attraverso lo spettacolo delle celebrity che praticano digiuni estremi, attraverso la normalizzazione progressiva di pratiche che sarebbero considerate maltrattamento, se non fossero rivestite di linguaggio salutista.

Ed è proprio qui che il fenomeno diventa insidioso: le almond mom si sentono giustificate. Non vedono l’ossessione, vedono amore. Non vedono controllo, vedono protezione. Il loro linguaggio è sempre quello della cura, della preoccupazione, della salvaguardia futura della figlia da un mondo che giudica i corpi delle donne. Trasformano il controllo in protezione

LE VOCI DELLE FIGLIE: IL RESOCONTO SOCIAL

TikTok ha fornito uno spazio dove le figlie delle almond mom possono finalmente raccontarsi. I video accompagnati da #almondmom sono emersi come racconto autobiografico di una generazione che scopre, da adulta, quanto fosse distorto il suo rapporto con il cibo.

Sono ragazze che scoprono a 12 anni che nell’acqua di cottura della pasta ci va il sale, che parlano di infanzia rubata, che raccontano di frigoriferi appositamente vuoti, che scoprono il sapore dal pane a 18 anni. 

Non sono aneddoti divertenti. Sono testimonianze di deprivazione, di un’infanzia governata dalla paura, di un rapporto con il nutrimento basato su vergogna e castigo. Sono il grido silenzioso di una generazione che sta iniziando a comprendere quanto fosse dannoso tutto questo.

MA COME RICONOSCERE UN’ALMOND MOM? 

I segnali sono chiari, se sai dove guardare:

  • La risposta al bicchiere d’acqua. Quando la figlia dice di avere fame, invece di offrire del cibo solido, viene offerta acqua. La fame viene invalidata, reinterpretata come confusione emotiva (Non hai fame, sei annoiata, bevi prima di mangiare)
  • Il commento sul corpo altrui. L’almond mom commenta costantemente il peso, l’aspetto, il corpo delle persone attorno a sé: il corpo femminile diventa territorio pubblico di giudizio.
  • La privazione come normalità. Il cibo proibito (pasta, pane e dolci in primo luogo) non esiste in casa. O, se esiste, è vietato ai figli, mentre la madre lo guarda da lontano. Il contrasto insegna ai bambini che certi cibi sono cattivi, che chi li mangia è cattivo, che il desiderio di mangiarli è una debolezza.
  • L’esercizio come punizione. Lo sport non è mai per divertimento, è  per “mantenersi in forma”, per “compensare”, per “bruciare i peccati alimentari della settimana”.
  • Il digiuno come insegnamento. La madre digiuna pubblicamente, con orgoglio. I figli imparano che la privazione è virtù, che ignorare la fame è forza.

IL DANNO NEUROBIOLOGICO

Il danno non è soltanto psicologico ma neurobiologico. I neuroscienziati hanno documentato come la deprivazione alimentare prolungata durante l’infanzia e l’adolescenza (fasi critiche dello sviluppo cerebrale) altera la capacità del corpo di riconoscere i segnali di sazietà e di fame. Quindi cresce una generazione di donne che non sa ascoltare il proprio corpo, che ha imparato a ignorare i segnali primari del sé biologico. 

Le figlie delle almond mom soffrono spesso di un’incapacità di autoregolazione: da un lato, l’estremo controllo; dall’altro, il binge eating. Il pendolo oscilla tra gli estremi perché la zona grigia, il nutrimento consapevole e gioioso, non è mai stata loro insegnata. 

LA VERA EREDITÀ

La vera questione, alla fine, non riguarda le mandorle ma quale eredità vogliamo trasmettere. Vogliamo passare alle nostre figlie la costante paura, l’ansia perpetua e la sensazione che il corpo sia un progetto di riparazione infinito? O vogliamo insegnare loro che il valore non vive sulla superficie, che la fame è saggia e che il controllo non è amore?

Le almond mom credono di amare e, in un certo senso, lo fanno. Ma confondono l’amore con il controllo, la protezione con la deprivazione e la cura con la critica. È tempo che questa generazione scopra la differenza e che la prossima generazione cresca senza aspettare che una mandorla la sazi, né fisicamente né emotivamente.

Perché alla fine, il vero nutrimento non viene da ciò che mangiamo. Viene da come ci viene insegnato a considerare il nostro corpo, il nostro desiderio e anche la nostra fame. Se vogliamo davvero amare le nostre figlie, iniziamo da lì: dall’ascolto, dal consenso e dalla libertà.

Illustrazione di Sonia Giampaolo

Elisabetta Carbone

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Elisabetta Carbone

Elisabetta Carbone è psicologa clinica e sessuologa con orientamento sistemico-relazionale. Si occupa di relazioni, identità, narrazioni individuali e familiari, con uno sguardo attento alle dinamiche culturali e sociali che attraversano la psiche. Fondatrice dello studio Oikos, scrive di salute mentale con un linguaggio accessibile ma rigoroso, costruendo ponti tra psicologia e società. Vegetariana convinta, non fa un passo senza Teo, il suo inseparabile compagno a quattro zampe.
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