Il tempo dell’attesa non è tempo perso: quello che nessuno ci racconta

La scuola è finita e davanti ho l’estate più lunga della mia vita.
Aspetterei per anni l’inizio dell’università, mentre mi tuffo nel mare e mi tolgo la salsedine di dosso solo per andare a cena fuori.
E poi? Ho finito l’università e non so cosa fare. Aspettare non è più come una volta. La testa è piena di preoccupazioni e mi viene in mente che della mia vita non so niente. Che sono in balia del destino o il destino è l’insieme delle scelte che non ho il coraggio di prendere. Che è successo?
È arrivato un lavoro, ho fatto mille cose insieme. Uscire la mattina e tornare la sera. Stanca, ma almeno non ho avuto un momento per pensare. O agisci o pensi. È finito il lavoro, gli impegni e le giornate che volano. Devo di nuovo aspettare. L’esito dell’esame, la risposta a quel colloquio, quel Master che comincia solo tra due mesi. È tornato il silenzio, di nuovo. Credevo che facesse meno male. Ma mi ero solo scordata del rumore che fanno i pensieri quando c’è poco da fare. Avrei voluto che qualcuno me l’avesse raccontato…
Un tempo ero convinta che sarebbe andata così: scuola, università e poi subito il lavoro dei sogni, tipo lettera da Hogwarts che arriva di mattina presto il giorno dopo la laurea mentre ti stai ancora riprendendo dalla notte di festeggiamenti. Non avevo mai pensato alle logoranti attese che avrei incontrato lungo la strada. Nessuno me ne aveva mai parlato, di quei momenti in cui odi conoscere persone nuove perché – per qualche assurdo motivo – quando ci presentiamo dobbiamo sempre dire cosa facciamo e mai chi siamo.
Chi siamo? Beh oggi non sono una studentessa, anche se tra poco lo sarò di nuovo, ma oggi non conta. Non sono una dipendente. Agli occhi delle persone che mi conoscono sembro non essere più nemmeno io, brava, intelligente o determinata. Per loro sono al pari di un hikikomori, di quelli che si seppelliscono in casa per tagliare tutti i ponti con il mondo esterno, anche se la verità non potrebbe essere più lontana.
“Le cene in famiglia dopo la maturità erano una tortura, perché si trasformavano nel festival dei consigli non richiesti”
Spatriati, Mario Desiati
Credono che mi stia perdendo e invece nel silenzio mi sto riscoprendo. Sto organizzando i prossimi passi, capendo cosa mi rende felice. Non posso sempre correre senza capire niente. E invece mi sembra di leggere compassione nello sguardo di tutti quelli che incontro. E allora inizio a sentirla anche io la loro angoscia, la sfiducia. L’ansia è quella di perdere l’unico treno che ti può portare in orario a quell’appuntamento dall’altra parte della città. Le pareti di casa si restringono, il tempo si allunga ma i giorni scorrono più veloci.
“Trovavo in quel gesto di rifare il letto già fatto da me un segno di sfiducia, e la sfiducia contiene sempre un seme di violenza”
Spatriati, Mario Desiati
Allora inizio a comportarmi come vogliono loro. Gli mento. Che stai facendo? Sto lavorando. Oppure sto studiando. Tanto tra poco lo farò davvero, che importa. E poi è arrivata, la rivelazione che mi faceva ridere ogni volta: nessuno mi chiedeva cosa stessi studiando o dove stessi lavorando. Mi faceva ridere perché avevo capito che temevo il giudizio di persone che in realtà meritavano di ricevere la mia, di compassione. Perché avevano imparato tutte che l’importante è timbrare il cartellino, poco importa se poi ti addormenti con la testa sulla scrivania. Basta che non stai mai ferma e che non ti guardi mai indietro.
E invece voltarci indietro è l’unica cosa che ci permette di capire perché siamo diventati quelli che siamo e chi vogliamo continuare ad essere. E spesso, quando lo facciamo, è proprio a quei momenti lì – in cui non succedeva niente – che ci riportano i pensieri.
Il tempo fermo ci prende sempre a schiaffi. È spaventoso, paralizzante, inquieto. Mi sposto da una sedia all’altra nella speranza di trovare la calma durante il tragitto. Ma è così solo perché non ce lo hanno mai raccontato. O hanno finto di dimenticare che passiamo la maggior parte della vita ad aspettare.
“Aspettare è una imposizione. Eppure è l’unica cosa che ci fa percepire fisicamente il logorio del tempo e ce ne fa conoscere le promesse. Esistono infinite forme di attesa: in amore, dal medico, alla stazione o nel traffico. Aspettiamo: l’altro, la primavera, i numeri del lotto, un’offerta, il pranzo, la persona giusta, e aspettiamo Godot. I compleanni, i giorni di festa, la felicità, i risultati sportivi, un referto. Una telefonata, il rumore della chiave nella toppa, il prossimo atto e la risata dopo il finale di una barzelletta. Aspettiamo che un dolore smetta e che ci colga il sonno o che il vento si plachi. Inerzia, distrazioni o noia: nel registro delle ore programmate, l’attesa è la pagina vuota da riempire. Che nel migliore dei casi ci ricompensa con la libertà”
Andrea Köhler, L’arte dell’attesa
Significa che se non viviamo durante l’attesa tra un fatto e l’altro, moriremo senza averlo fatto.
Che poi aspettare non è così male, è in tutte le cose più belle della vita. La natura impiega un sacco di tempo a fiorire, un bimbo nella pancia attende un bel po’ di mesi per vedere la luce. I baci più belli sono quelli per cui abbiamo aspettato. Non perché “l’attesa alimenti il piacere”, ma solo perché – se dobbiamo attendere così tanto nella vita – tanto vale farci pace. Con la noia, l’incertezza, il vuoto.
Quindi diciamocelo, che siamo stanchi di chi cerca di nasconderci le fasi più naturali della vita e farle passare per deviazioni spiacevoli o squallidi ritardi. Di chi ci vuole frustrati, infelici e senza voglia di goderci la vita. Il capitalismo, gli adulti, la vita stessa.
Delle persone più grandi di me che vogliono vendermi la loro esperienza andata a male. Che per sentirsi meglio con sé stessi fingono di non aver mai vissuto quello che stai vivendo tu.
Che hanno passato la giovane età a giocare a campana per ammazzare il tempo. Ad aspettare Natale per ricevere un regalo. L’uscita di un disco in negozio, una lettera che arriva da lontano.
I pomeriggi a fissare il telefono grigio in sala da pranzo, con la cornetta e i numeri in cerchio, sperando che la ragazza conosciuta il giorno prima chiamasse, finalmente. E vogliono farmi credere di non aver mai aspettato niente.
Simona Settembrini
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