Quando la maternità si spezza

Due casi di figli uccisi dalle madri in pochi giorni. Storie diverse ma unite da un’unica radice, una società che pretende molto dalle madri
Negli ultimi giorni due storie, lontane nei dettagli ma vicinissime nel dolore, hanno riportato alla luce la stessa ferita, una fragilità lasciata in totale stato di abbandono. La prima arriva da Muggia, Trieste. Una madre, già seguita dai servizi sociosanitari, ha ucciso il figlio di nove anni nonostante segnalazioni precedenti e un monitoraggio attivo. Una vicenda che impone immediatamente una domanda brutale: Come può accadere quando la rete sembra già così formalmente presente? Pochi giorni dopo, un altro caso, Calimera, Lecce un omicidio-suicidio. Una madre, in un momento di collasso psichico totale, ha prima ucciso il proprio bambino e poi sé stessa. Un crollo annunciato, fatto di segnali ignorati e fatica sommersa. Due tragedie in sei giorni che vedono due madri e due bambini e dietro, sempre la stessa storia, una solitudine che nessuna retorica sulla maternità può più coprire.
Oltre il mostro. Non scegliamo la scorciatoia emotiva
Di fronte a fatti così insopportabili, l’istinto umano è quello di proteggersi. Si attivano reazioni immediate e irrazionali che ci portano ad etichettare, respingere, giudicare, collocare in qualche modo l’orrore fuori da noi. Ci raccontiamo la storia più comoda, quella dei “mostri” Madri indegne, innaturali, cattive. Una semplificazione che rassicura, perché mantiene la tragedia a distanza da noi.
Ma questa scorciatoia emotiva offusca la domanda fondamentale: Che cosa c’è dietro questi gesti? In questo articolo, il nostro ruolo è informare, certo, ma non possiamo ignorare le scenografie strutturate di vuoti, solitudini e abbandoni che rendono possibili queste tragedie. Dentro questi schemi malsani, anche i padri hanno un ruolo, figure totalmente inascoltate, spesso silenziate, ignorate quando esprimono preoccupazioni, timori o richieste di intervento. Questi casi non sono eccezioni, sono pattern che tornano con inquietante precisione.
In primis, una fragilità psichica non riconosciuta o comunque non realmente accompagnata. Pressioni culturali irrealistiche che chiedono alle madri di essere solide anche quando non lo sono.
Servizi sociali sovraccarichi e frammentati, incapaci di garantire continuità che incontrano famiglie prive di una rete reale e padri spesso ignorati nei processi di tutela, tra questi bambini sospesi tra decisioni grosse che dovrebbero tutelarci sulla carta ma che nella fattispecie li ignorano totalmente. Ma dietro ancora c’è un punto più profondo, raramente nominato, la narrazione idealizzata e patriarcale della maternità.
In Italia continuiamo a coltivare un immaginario della maternità dal sapore morbido, sacro, totale.
Un idillio che funziona come una specie di gabbia invisibile. Una madre deve essere naturalmente competente, istintivamente protettiva ed emotivamente solida.
La fragilità materna viene subito trasformata in colpa, e il dolore in qualcosa da soffocare. Lo dimostra la depressione post-partum, che ancora oggi viene liquidata o resa invisibile perfino da chi dovrebbe intercettarla. In questo immaginario, una richiesta d’aiuto diventa una perdita di valore e questa narrazione — rassicurante per la società — schiaccia completamente le donne.
Tutto ciò poggia su radici patriarcali, non quelle semplificate nei dibattiti social, ma quelle sottili e strutturali che plasmano ruoli e aspettative e che, proprio quando il femminismo perde complessità, trovano spazio per operare ancora più indisturbate. Il ruolo di madre diventa una risorsa sacrificabile del sistema famiglia. La sua tenuta emotiva viene data per scontata, il suo personaggio pensato come contenitore, mai come persona con limiti.
Quando vacilla, quando soffre, quando non ce la fa più, non esiste linguaggio per dirlo e intorno spesso, nessuno ascolta davvero. È qui che si innestano le tragedie, non nell’assenza d’amore, ma nell’assenza di rete.
I padri come figure inascoltate e il patriarcato che non immaginiamo
Qui emerge un altro paradosso: il patriarcato colpisce anche i padri.
Parliamo di patriarcato reale, strutturale, che costruisce ruoli rigidi. Se la madre è vista come custode naturale del benessere dei figli, il padre diventa un ruolo totalmente secondario, marginale e nei casi più critici, viene ignorato. In molte vicende — e non solo in quelle recenti — i padri avevano espresso timori, chiesto aiuto, segnalato instabilità. Hanno parlato, scritto, insistito ma le loro parole sono state considerate esagerate, iperprotettive, conflittuali oppure archiviate come parte delle dinamiche di coppia. Il risultato è gravissimo, un segmento fondamentale di osservazione e prevenzione viene escluso dal processo decisionale. In un sistema sano, la tutela del minore dovrebbe sempre essere plurale. E invece continuiamo a considerare la maternità un luogo da cui passa tutto, mentre la paternità resta accessoria. Questo non aiuta le madri e nemmeno i padri ma soprattutto non tutela i bambini.
La verità è semplice e tremenda: non sappiamo, o non vogliamo, reggere la fragilità.
È troppo pesante, troppo ingombrante, troppo distante dalla narrazione ottimistica che costruiamo su di noi. Abbiamo un sistema assistenziale sottodimensionato, una cultura che stigmatizza la salute mentale, servizi territoriali esausti, famiglie isolate, legami comunitari evaporati. La cura è ancora percepita come un costo, mai come un investimento politico e umano. Finché questi elementi non cambieranno, continueremo a raccontare tragedie che chiamiamo “incredibili” ma che, in realtà, sono profondamente prevedibili.
Non dopo. Prima
Troppe sono le domande che restano sospese, e non riguardano il perché queste madri abbiano compiuto quei gesti. Quella risposta non ci appartiene, non ne abbiamo il titolo. Le domande vere sono altre:
Perché nessuno è riuscito a vedere il baratro prima? Perché continuiamo a riconoscere il dolore solo quando ha già fatto rumore?
Due storie così vicine non sono semplici pagine nere di cronaca, sono un varco che si apre e ci ricordano che la fragilità non è un difetto da correggere, ma una condizione da accogliere e che quando una fragilità viene lasciata sola, qualcosa si spezza sempre anche in una madre, anche in una famiglia e soprattutto in una comunità intera.
Forse tutto ciò che possiamo fare — prima delle analisi, prima delle soluzioni, prima dei giudizi — è imparare di nuovo ad ascoltare, provando a riconoscere quando qualcuno vacilla. Lasciare che la maternità possa essere anche ambivalenza, fatica, ombra e concedere il diritto di chiedere aiuto senza paura. Solo così, forse, un giorno smetteremo di vedere le stesse storie tornare, identiche, a ricordarci ciò che non abbiamo voluto vedere.
Serena Parascandolo
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