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Il peso del corpo

Vivere nel corpo di una donna, oggi, significa vivere in una condizione di negoziazione costante. Con la società, con la famiglia, con il lavoro, con gli sconosciuti. Significa imparare la paura prima della libertà, il dolore prima del piacere, la responsabilità prima del diritto di esistere.

Significa che quando esci di casa hai già fatto un lavoro mentale invisibile. Significa che il tuo corpo è uno spazio pubblico che deve essere costantemente negoziato. Significa che il costo della tua sicurezza viene addebitato a te, non a chi rappresenta la minaccia.

Non scrivo con la disperazione nel cuore, scrivo perché la consapevolezza è il primo passo. Perché quando nomini una cosa, essa smette di essere invisibile. Solo con e tramite le parole esistiamo: quando si parla del dolore, esso smette di essere solo tuo e diventa politico, strutturale ma affrontabile.

Il corpo delle donne non ha bisogno di essere protetto dagli uomini nel senso “tradizionale”: ha bisogno di uno spazio dove non sia costantemente minacciato, ha bisogno di libertà di movimento, di parola, di rifiuto… ha bisogno di non essere un territorio da conquistare, controllare e commentare.

La domanda non è “come si può insegnare alle donne ad avere meno paura?”. La domanda è: “come costruiamo una società dove questa paura non debba esistere?”. 

LA PAURA QUOTIDIANA

L’altro giorno ho camminato per tre isolati con le chiavi tra le dita. Non è una scena da film, è una strategia attiva. Le chiavi sono affilate, pronte e posizionate in modo da poterle usare, se necessario. Ho imparato questo a 14 anni, non in una lezione di autodifesa ma nel quotidiano, da amiche, sorelle, compagne, da quella trasmissione di paura che passa di donna a donna come un’eredità genetica.

Mentre camminavo, la mia mente stava facendo un lavoro invisibile. Mappava la strada: quali negozi erano ancora aperti, quale percorso era più illuminato, quante persone c’erano intorno. Il tipo che mi seguiva doveva andare dove andavo io o aveva altre intenzioni? Mi sono resa conto che, cazzo, contavo i passi degli uomini dietro di me. Calibravo il mio atteggiamento: dovevo sembrare consapevole ma non arrabbiata, non provocante, non dovevo sembrare disponibile ma nemmeno scortese. Questo è l’equilibrio perfetto tra invisibilità e accettabilità.

Gli uomini non sanno cosa significa. Non perché non siano intelligenti, ma perché il loro corpo non parla questo linguaggio.

Quando un uomo torna a casa da solo di sera, attraversa la strada come qualcosa di neutrale, uno spazio senza significato. Quando torno io, ogni passo è una negoziazione. Ogni scelta di abbigliamento è una decisione tattica. L’abito che indosso potrebbe essere troppo, il modo in cui cammino potrebbe essere invitante, la mia semplice presenza nello spazio pubblico potrebbe essere interpretata come un’apertura.

Questa vigilanza costante ha un costo che nessuno quantifica. È energia mentale, è lo spazio cognitivo che dovrebbe servire per pensare al lavoro, ai progetti, ai sogni, alla vita, e che invece viene consumato da strategie di sopravvivenza. È l’effetto secondario invisibile: l’ansia bassa, quella che non urla ma sussurra costantemente al tuo sistema nervoso. È il fatto che tante donne si sentono stanche prima ancora di iniziare la giornata, perché il lavoro della paura inizia prima di ogni cosa.

Mi chiedo spesso quanto più intelligente, quanto più creativa, quanto più felice potrei essere se il mio cervello non stesse facendo questa moltiplicazione continua. Se non dovessi sempre avere un’uscita di sicurezza mentale. 

Se potessi, semplicemente, passeggiare…

IL CORPO TOCCATO, COMMENTATO, GIUDICATO

Il corpo delle donne non è solo il corpo delle donne. 

Cominci a sentirlo negli sguardi, nel commento dello zio a tavola quando hai dodici anni e ti dice “Stai diventando una donna”. Come se fosse già una cosa pubblica. Poi è un cugino che commenta quello che indossi. Poi è il ragazzo alla fermata che ti fischia. Poi è il collega che ti mette una mano sulla spalla dicendoti che sei “troppo seria” e che dovresti sorridere di più.

Questi non sono grandi episodi di violenza: sono il contesto, sono il sottofondo sonoro della vita del corpo femminile. E quello che la gente non capisce è che non sono innocenti, sono la pratica quotidiana di una dinamica: il tuo corpo non è tuo, è commentabile e disponibile per il giudizio pubblico.

Il ciclo mestruale è il primo tradimento. Non è un dolore nobile come lo romanticheggia la cultura, è dolore che ti lascia a terra, che cambia il tuo equilibrio chimico e la tua capacità di pensare. E mentre ti contorci, qualcuno ti suggerisce che forse stai esagerando. Che non è così male. Come se soffrisse solo il tuo corpo e non la tua dignità nel doverlo spiegare, nel dover giustificare il dolore

Ma il dolore fisico è solo la superficie. C’è il dolore di essere guardata, di sapere che il tuo corpo è stato valutato prima ancora che tu abbia potuto scegliere se volevi essere valutata. C’è il dolore di cambiare il modo in cui ti muovi nel mondo a seconda di come pensi che il tuo corpo sarà interpretato. C’è il dolore di sentire il tuo corpo diventare un’arma contro di te: troppo grosso, troppo piccolo, troppo evidente o troppo invisibile.

Questo dolore si somatizza. Si trasforma in tensione costante alle spalle, in mal di stomaco, in quell’incapacità di rilassarsi completamente perché c’è sempre una parte di te che sta vigilando, proteggendo il tuo corpo da uno sguardo, da una mano indesiderata o da un commento. Il corpo immagazzina tutto: la vergogna, la paura e il giudizio. Tutto diventa memoria.

LA VIOLENZA NON COMINCIA CON I FEMMINICIDI

I femminicidi non sono incidenti. Sono la punta dell’iceberg di una dinamica che non comincia con l’omicidio.

Comincia con forme molto più sottili di violenza: con il controllo, con il fatto che un uomo decidere dove una donna può andare, cosa può indossare e con chi può parlare. Questi non sono casi di violenza domestica eclatante, sono dinamiche normalizzate. Sono relazioni dove il confine tra protezione e controllo è talmente sfumato che molte donne non riescono nemmeno a definirlo violenza.

Cominciano quando un ragazzo ti dice di non andare al bar sola. Quando tuo padre controlla i tuoi movimenti. Quando il tuo partner sa dove sei, sempre. Quando nessuno chiede il permesso, ma tu chiedi il permesso a loro. Questa è già una forma di violenza. Non è un episodio acuto, è un’erosione costante.

E quando le cose peggiori accadono, quando la violenza diventa fisica, quando il controllo si trasforma in sequestro, quando il corpo viene preso senza permesso, la società chiede sempre le stesse domande: “Perché non ha detto di no? Perché non se ne è andata?”.

Come se vivere nel corpo di una donna, in una società che pratica il controllo quotidiano, non significasse già essere intrappolate. Come se il rifiuto di un corpo fosse possibile quando al tuo corpo è stato insegnato a negoziare, a compiacere e a non dire di no troppo forte.

I femminicidi non sono eccezioni. Sono la conclusione logica di una dinamica che la società pratica costantemente e che noi interiorizziamo come normale. Sono quello che succede quando il controllo raggiunge il suo limite estremo.

L’IMPOSSIBILITÀ DI SPIEGARE

Questo è forse il dolore più profondo: l’impossibilità di farsi comprendere.

Puoi dire ad un uomo “ho paura” E lui dirà “tranquilla, a te non succederà”. Come se la paura fosse irrazionale, come se potesse essere ragionata. Come se i numeri (una donna su tre donne subisce violenza nella vita) fossero solo statistiche astratte e non il racconto della tua amica, di tua sorella o della tua collega.

Puoi dire: “mi sento controllata” e lui dirà “solo perché ti voglio bene”. E improvvisamente la tua interpretazione della realtà viene messa in dubbio: forse stai esagerando, forse è protezione, non controllo, forse la tua percezione è sbagliata…

Puoi dire “il mio corpo fa male” e lui dirà “ma dai, non è così grave”. Come se il dolore fosse una questione di gravità oggettiva, come se potesse essere misurato con metri esterni al tuo corpo.

E l’effetto di questa incomprensione ripetuta è devastante. Ti abitui a non essere compresa, cominci a dubitare della tua stessa esperienza e internalizzi l’idea che forse stai esagerando, che forse la tua paura non è legittima e che forse il tuo dolore non è reale.

La cosa che gli uomini non capiscono è che non si tratta di spiegare meglio. Si tratta del fatto che il loro corpo non ha mai parlato questo linguaggio. Non sanno cosa significa portare il carico di una vulnerabilità strutturale. Non sanno cosa significa che il tuo corpo è il primo territorio dove la società esercita il controllo, molto prima di altre forme di oppressione. Non sanno cosa significa che questa oppressione non è episodica, è quotidiana, è invisibile ed è normalizzata.

E noi non possiamo fargli provare cosa significa. Possiamo solo dirlo, ancora e ancora, finché non iniziano a credere che non è un’opinione. È una realtà.

CARI UOMINI…

Se mi state leggendo, il mio non è un attacco, ma un invito.

Un invito a capire che quando dite a una donna “non ti succederà nulla, stai serena”, state negando la sua esperienza quotidiana. Che quando chiedete perché non se ne è andata, state collocando la responsabilità nel posto sbagliato. Che quando commentate il suo corpo, il suo abbigliamento, il suo modo di camminare, state partecipando a una pratica di controllo che ha radici molto più profonde di quello che potete immaginare.

Un invito a riconoscere il vostro privilegio: il diritto di occupare lo spazio pubblico senza vigilanza, il diritto di un corpo che non è commentato prima di essere visto, il diritto di dire no senza dovervi preoccupare delle conseguenze.

Un invito a educare i ragazzi in modo diverso. Non a proteggere le ragazze, ma a insegnare ai ragazzi che il corpo di una donna non è un territorio. Che il rifiuto è rispetto, che il controllo non è amore e che il silenzio di una donna non è un permesso.

Non potete capire completamente cosa significa vivere in questo corpo, ma potete smettere di metterlo in discussione. Potete iniziare a credere quando una donna dice che ha paura, potete capire che questa non è una questione di “educare meglio le donne”: la questione è di trasformare la società.

Il corpo delle donne non ha bisogno della vostra comprensione, ma del vostro cambiamento. Il corpo delle donne fa male

Ogni giorno, milioni di donne parcheggiano la loro intelligenza, la loro creatività, i loro sogni in un angolo della mente per fare spazio a un lavoro molto più primitivo: la sopravvivenza. Non è drammatico, non è raro, è normale. È quello che succede quando al tuo corpo viene insegnato, fin da bambina, ad essere una minaccia a sé stesso.

Questo articolo non è per convincere gli uomini, ma per far capire cosa significa vivere in uno spazio che non ti appartiene completamente, in un corpo che non è mai stato completamente tuo. Non è una metafora. È letterale.

IL PESO DEL CORPO

Vivere nel corpo di una donna, oggi, significa vivere in una condizione di negoziazione costante, con la società, con la famiglia, con il lavoro, con gli sconosciuti. 

Significa imparare la paura prima della libertà, il dolore prima del piacere, la responsabilità prima del diritto di esistere.

Significa che quando esci di casa hai già fatto un lavoro mentale invisibile. Significa che il tuo corpo è uno spazio pubblico che deve essere costantemente negoziato. Significa che il costo della tua sicurezza viene addebitato a te, non a chi rappresenta la minaccia.

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Elisabetta Carbone

Elisabetta Carbone è psicologa clinica e sessuologa con orientamento sistemico-relazionale. Si occupa di relazioni, identità, narrazioni individuali e familiari, con uno sguardo attento alle dinamiche culturali e sociali che attraversano la psiche. Fondatrice dello studio Oikos, scrive di salute mentale con un linguaggio accessibile ma rigoroso, costruendo ponti tra psicologia e società. Vegetariana convinta, non fa un passo senza Teo, il suo inseparabile compagno a quattro zampe.
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