Cosa succederà con l’autonomia differenziata approvata

L’autonomia differenziata in Italia è un tema che negli ultimi anni ha suscitato dibattiti accesi, poiché tocca punti nevralgici dell’assetto istituzionale, economico e sociale del Paese.
Si tratta della possibilità, prevista dall’articolo 116 della Costituzione, che alcune Regioni richiedano ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in specifiche materie come istruzione, sanità, trasporti, energia, ambiente, cultura e altre competenze strategiche.
In teoria l’obiettivo sarebbe aumentare l’efficienza amministrativa e permettere alle Regioni più virtuose di gestire direttamente determinate funzioni per garantire servizi migliori e più vicini ai bisogni territoriali. Tuttavia, quando ci si sposta dal piano dei principi a quello delle conseguenze pratiche e strutturali, emergono numerosi aspetti critici che rendono l’autonomia differenziata un progetto potenzialmente problematico per l’Italia, soprattutto nella sua conformazione attuale. Uno dei principali contro riguarda il rischio concreto di ampliare le già profonde disuguaglianze economiche e sociali tra Nord e Sud.
L’Italia è caratterizzata da differenze storiche in termini di PIL pro capite, servizi, qualità della sanità, infrastrutture e livelli occupazionali. Consentire a Regioni con maggiori risorse economiche di trattenere una quota più ampia del gettito fiscale significa – di fatto – lasciare le Regioni più deboli con meno fondi disponibili, rendendo ancora più difficile colmare gap già esistenti. Questo crea un circolo vizioso: le aree forti diventano più forti, quelle deboli restano o diventano più deboli. Il principio dei LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni che dovrebbero garantire diritti minimi uguali per tutti i cittadini italiani, rischia inoltre di rimanere solo un concetto astratto se non viene adeguatamente finanziato e definito in modo chiaro. Senza LEP realmente operativi e garantiti dallo Stato, la qualità dei servizi potrebbe dipendere sempre di più dal luogo di residenza, minando i principi costituzionali di uguaglianza e coesione.
Un altro elemento negativo riguarda la frammentazione amministrativa e normativa. Affidare a ogni Regione competenze diverse in settori come istruzione, energia o trasporti potrebbe generare una complessità gestionale tale da rendere più difficili coordinamento, pianificazione e interventi nazionali di ampio respiro. Si rischierebbe di creare un mosaico di regole differenti in un Paese già fortemente diviso sul piano burocratico, con potenziali ripercussioni su investimenti, imprese e mobilità. Lo stesso mercato del lavoro, se gestito su base regionale, potrebbe diventare ancora più eterogeneo con contratti, diritti e tutele che variano da Regione a Regione, mettendo in crisi l’unitarietà del sistema.
Anche il sistema educativo potrebbe risentirne profondamente: programmi scolastici regionalizzati, stipendi degli insegnanti differenziati, criteri di assunzione non uniformi rischiano di generare un’istruzione a più velocità, compromettendo il diritto a un’educazione equa e accessibile e ostacolando la mobilità degli insegnanti e degli studenti. Un ulteriore contro riguarda la gestione delle emergenze nazionali. Eventi come pandemie, crisi energetiche, dissesti idrogeologici richiedono interventi centralizzati e coordinati; un’Italia troppo frammentata renderebbe più difficile una risposta rapida ed efficace. Ciò vale anche per infrastrutture e trasporti: pensare a politiche regionali indipendenti in settori che richiedono una visione nazionale può rallentare progetti e creare ulteriori disparità territoriali.
Non meno importante è il rischio di un aumento del conflitto istituzionale. Già oggi molte normative regionali finiscono davanti alla Corte Costituzionale per conflitti di competenza; con l’autonomia differenziata questo contenzioso potrebbe moltiplicarsi, generando incertezza e rallentamenti. Infine, c’è un tema culturale e identitario: l’Italia è un Paese che ha faticato a costruire una propria coesione nazionale e che porta ancora le cicatrici di divisioni storiche. Un modello che accentua ulteriormente le differenze rischia di indebolire il senso di appartenenza comune, favorendo la percezione di un Paese a pezzi, in cui diritti e opportunità dipendono dalla latitudine. In conclusione, pur essendo un progetto che sulla carta può sembrare un percorso verso maggiore efficienza e responsabilizzazione territoriale, l’autonomia differenziata in Italia presenta numerosi lati negativi, soprattutto se non accompagnata da solide garanzie nazionali, da un vero rafforzamento dei LEP e da una visione politica volta a ridurre e non ad ampliare le disuguaglianze. Il rischio è che, invece di migliorare il funzionamento dello Stato, finisca per generare un sistema più disomogeneo, meno equo e più difficile da governare, con conseguenze potenzialmente dannose per l’unità del Paese e per la parità dei diritti dei cittadini.
Tommaso Alessandro De Filippo
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