È la fragilità che li eccita – tutte le volte che non è successo niente

Era un pomeriggio grigio senza nuvole.
La luce bianca del cielo contornava le sagome degli uomini in alto sui camion che scaricavano in terra non so cosa.
Dicevano cose che le mie orecchie si rifiutavano di decifrare, e come prova non ricordo una sola parola. Ricordo solo gli sguardi famelici e le bocche impastate di saliva come fossero davanti a un pezzo di carne.
Poco prima le gambe avevano cominciato a formicolare. Rilasciavano nel corpo una specie di calore che risaliva fino alla testa, che improvvisamente si faceva leggera. Mi faceva battere forte il cuore che martellando cercava di svegliarmi dal torpore. Forse era la prima volta che il panico si impadroniva delle viscere, o forse no, ma stavolta non l’avevo proprio sentito arrivare. Mi dissi di alzarmi, di camminare un po’ e concentrarmi su quello che mi stava intorno. Tutto il trambusto di cui è capace Corso Umberto I alle due del pomeriggio. Napoli ti da sempre tante cose da guardare se hai bisogno di distrarti. Camminavo con l’aria che mi ballava intorno come quando si guarda attraverso le lingue di fuoco e faticavo ad infilare i piedi dritti per non scivolare nelle fiamme.
E poi li vidi, quegli uomini sudati e lerci, che mi ammiccavano, mi invitavano a farmi un giro sul camion, si spalleggiavano, ridevano. Non era la prima volta, ovviamente, non lo è mai. Ma stavolta non potevo accelerare il passo senza sentire la nausea salire. Nemmeno guardare per terra, la vista del cemento mi faceva girare ancor di più la testa al pensiero che mi ci sarei schiantata. All’inizio avevo pensato che mi stessero guardando perché mi avevano vista brancolare. Pensavo volessero chiedermi se stessi bene, offrirmi un bicchiere d’acqua, farmi sedere. Per un secondo mi sentii sollevata. Avevano l’età di mio padre. Avrebbero visto in me una delle loro figlie, era naturale.
È l’aspetto intontito che eccita gli uomini, pensai dopo. La fragilità. O qualsiasi cosa sia a renderti confusa, a sfumare i confini del sì e del no. Lo fiutano come i leoni vanno in cerca delle gazzelle e le attaccano solo quando sono di spalle, senza farsi vedere. Avevano capito dal mio sguardo assente che nemmeno io avrei mai messo a fuoco i loro volti.
Nulla accadde, continuai a camminare, rimasero indietro in cima al camion, non mi toccarono. Non come quell’altra volta, quando stavo per scendere i gradini della metro e uno sconosciuto sulla trentina mi aveva fermata per chiedermi la strada che porta alla banca. Scusa non abito qui, gli dissi. E dove abiti? Dove vai? A casa, torno dall’università, e cosa studi? Gli rispondevo. La bocca si muoveva da sola mentre con lo sguardo mi giravo a cercare il ragazzo in tenuta da calcio che era abbastanza vicino da ascoltare tutta la conversazione. Aspetta non te ne andare, mi afferrava il braccio. I tuoi capelli sono così sensuali, il tuo parrucchiere ha creato i fuochi d’artificio. Disse proprio così, mi sembrò così patetico che avrei potuto ridergli in faccia se avessi avuto il fiato per farlo.
Intanto il giovane calciatore mi guardava come quando combatti il sonno sul divano mentre alla TV danno un film noioso. Abbassava la testa a guardarsi i piedi cinti dagli scarpini e io volevo che sentisse i miei pensieri. Volevo che gli scacciasse via la mano e gli ficcasse i tacchetti sul cavallo dei jeans e lo lasciasse lì a frignare. Non si mosse. Scappai via, lungo la prima rampa di gradini, mi voltai a metà, non c’era nessuno. Non aveva nemmeno provato a seguirmi, si era dileguato. Eppure avevo tremato per tutto il tragitto sottoterra, tra i corpi sudati che si stringevano addosso e consumavano tutta l’aria. E se mi avesse seguito, invece? Stupida, stupida. Avrei dovuto rifugiarmi in qualche negozio, avrei potuto avvertire qualcuno. Quando sono arrivata al binario il posto era deserto. Se mi avesse seguita avrei potuto urlare quanto volevo. Mi avrebbero trovata per terra, camminando indifferenti. Affondando i tacchetti degli scarpini nella carne già martoriata.
Ma infondo non era successo niente, che ci pensi a fare? Era stato come una folata di vento gelata che ti prende in pieno viso e ti fa fuggire svelta verso casa mentre ti stringi nel cappotto. Come eravamo fuggite da ragazzine mentre aspettavamo che mamma ci venisse a prendere fuori scuola. C’era il sole. Io e la mia compagna stavamo leggendo di nascosto After di Anna Todd che appariva su Wattpad per la prima volta. Ci raccontavamo a bassa voce le scene che ci avevano sconvolte di più, avevamo appena scoperto come funzionava il piacere degli uomini e cosa succedeva quando terminava. Ci faceva ridere e per fortuna nessuno ci avrebbe chiesto perché ridevamo. Tutti gli altri ragazzi erano già andati via, lo stradone era deserto.
Sogghignavamo ancora quando una macchina verde si fermò proprio davanti a noi, a circa due metri di distanza. Un uomo grosso e grasso all’interno sembrava occupare tutto l’abitacolo. Ci piantava gli occhi addosso mentre il braccio destro si muoveva ritmicamente come un uomo delle caverne che sfrega una pietra per accendere un fuoco. Avevamo capito, anche se non avevamo visto niente perché la portiera dall’auto copriva tutto ciò che andava dal gomito in giù. Ironico no? Era la dimostrazione che ciò che avevamo letto esisteva nella realtà. Era divertente, ridevamo ancora mentre scappavamo via. Lo sapevamo che era sbagliato, ma infondo nessuno ci aveva avvertite che avrebbe potuto trascinarci in auto e farci del male.
Anche quella volta il vento ci spostò più in là e non accadde nulla. Quel vecchio nell’auto aveva un aspetto orribile. La mano libera carezzava la barba bianca e unta, i vestiti stretti e trasandati. Era brutto e grasso e sembrava un ignorante. Un analfabeta o un burbero che non è mai andato a scuola, a differenza nostra. Forse non era nemmeno capace di intendere. In fondo faceva anche un po’ pietà, no? È uno che non capisce niente, non è mica un medico? Era diverso. Non c’era da pensarci troppo.
Qualche tempo più tardi il dottore che doveva visitarmi i seni mi avrebbe invitata a togliermi la maglia facendogli uno spogliarello. Rideva, lo aveva detto per rompere il ghiaccio in fondo, c’era anche mia madre con me, non eravamo soli. Avevo scoperto che il camice bianco non mortificava ancor di più il gesto come mi sarei aspettata. Non era più svilente solo perché era un medico, era la stessa cosa. Era il figlio dell’uomo grosso e grasso o era lui nei suoi trent’anni.
Ma in fondo sono tutte storie che se ne vanno via insieme al vento. Non è mai successo niente. Posso dirmi anche fortunata, mi è andata bene. Non mi hanno mai divaricato le gambe con forza e spinto sulla pancia, non ho mai sentito nelle orecchie il respiro di qualcuno che non volessi amare.
Eppure mi ricordo tutte queste volte e tante altre ancora. I battiti irregolari, la paura, la delusione, lo sconforto e poi la rabbia. Sempre nello stesso ordine.
Deve essere successo qualcosa, tutte le volte che non è successo niente.
Anonimo
Illustrazione di Mariele Imputato



