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MTV chiude definitivamente e ci lascia orfani di un’epoca

Per chi è cresciuto a colpi di riff, scandali e poster stropicciati in cameretta MTV non era televisione, era appartenenza. La sua chiusura spegne la scintilla di una generazione che con quel rumore si è sentita viva.

Primo videoclip? “Video Killed the Radio Star”

Era il 1° agosto 1981, ore 00:01. Sugli schermi americani parte il primo videoclip di MTV: “Video Killed the Radio Star” dei Buggles. Non poteva esserci profezia più azzeccata. La musica smetteva di essere solo suono e deflagrava in immagine, performance, linguaggio visivo. MTV inventò un codice nuovo, unendo musica, televisione e pubblicità in una formula che avrebbe cambiato per sempre la cultura pop.

In Italia il canale arrivò nel 1997, con sede a Milano. Per noi millennials, ancora pivellini timidi (e spesso impauriti), fu un terremoto. Eravamo cresciuti a pane, walkman che si scaricavano sul più bello e VHS da riavvolgere: MTV spalancò la finestra delle nostre camerette e ci scaraventò dentro ossigeno puro. All’improvviso non eri più un adolescente isolato, ma parte di un movimento globale che parlava la tua stessa lingua e ti ascoltava quando nessuno intorno voleva farlo.

Non portò soltanto musica, portò aria. Libertà. In un’Italia che si travestiva da moderna ma restava ferma a tavolate domenicali, educazioni patriarcali e ipocrisie da “nuovo progresso”, MTV era la fuga.

L’uscita di emergenza dal teatrino delle buone maniere italiane, dove Silvio Berlusconi e Mediaset dettavano il copione. Per molti fu il primo vero contatto con l’idea che si potesse essere altro, oltre i confini di famiglia e società. MTV, in fondo, gridava: puoi essere altro, puoi essere di più.

MTV come industria culturale

Se Adorno e Horkheimer negli anni ’40 parlavano di “industria culturale” come produzione di massa di sogni e desideri, MTV fu la loro incarnazione in technicolor. Ogni videoclip era arte e merce allo stesso tempo: ti mostrava una canzone, ma anche uno stile, un brand, un modello di vita. Era marketing travestito da estetica quotidiana. Un bombardamento visivo che non ti diceva solo cosa ascoltare, ma anche come vestirti, cosa pensare, chi essere. MTV educava più della scuola, ma con un linguaggio più diretto: la pubblicità diventava cultura pop, la musica diventava pubblicità di se stessa.

E in quel frullatore, MTV centrifugava sottoculture. Punk, skater, emo, metallari, hip hop heads, ravers: ognuno trovava un pezzo di sé dentro i palinsesti. Hebdige l’avrebbe definita appropriazione simbolica: i codici delle tribù giovanili venivano globalizzati e consegnati anche al ragazzino di provincia che non aveva mai visto un concerto punk o una battle rap in strada. La ribellione diventava immagine, spettacolo, consumo. Ma proprio in quella “traduzione pop” c’era la magia: MTV ti faceva sentire parte di un movimento più grande, anche se le catene le compravi al mercato e le scarpe erano taroccate.

L’età dell’oro: icone e scandali

Gli scandali non mancavano, anzi: erano carburante. Madonna che baciava i crocifissi in “Like a Prayer” e faceva infuriare il Vaticano. Britney Spears vestita da liceale che destabilizzava un’intera generazione. Michael Jackson che con “Thriller” trasformava il videoclip in cinema.

E poi i Nirvana all’MTV Unplugged, con Kurt Cobain scalzo, già fantasma in diretta. Oppure Beavis and Butt-Head che sbeffeggiavano tutto e tutti. Con MTV abbiamo imparato cos’era la ribellione senza leggerla sui manuali, cos’era il desiderio senza lezioni di educazione sessuale, come l’ironia potesse diventare resistenza. MTV non giudicava: ti buttava addosso il mondo così com’era, sporco e scintillante insieme.

Dal videoclip al reality: la mutazione

Con i 2000, MTV cambiò pelle. Meno musica, più reality. Pimp My Ride trasformava carcasse in astronavi kitsch, Jersey Shore rese otto ragazzi di provincia icone globali del trash. Molti gridarono al tradimento, ma era il segno dei tempi: la musica non era più il centro, ma parte di un ecosistema più ampio di intrattenimento. MTV ci stava dicendo, a suo modo, che il videoclip da solo non bastava più.

Poi arrivarono YouTube (2005), Spotify e i social. MTV perse il monopolio dell’accesso. Non eri più costretto ad aspettare il tuo video preferito: bastava un click. Dove prima c’era il VJ come guida, ora c’era l’algoritmo. La magia dello “scoprire il nuovo” accendendo la tv svanì.

Fu il passaggio dalla società di massa alla società delle piattaforme: non più comunità davanti alla televisione, ma bolle individuali su TikTok e YouTube. MTV era nata per unire, ma fu stritolata da una frammentazione che non poteva più controllare.

La chiusura: fine di un’illusione

Oggi la notizia è ufficiale: MTV chiude i suoi canali in diversi Paesi. È l’ultimo atto di una lenta agonia, ma con un peso simbolico devastante. Cala il sipario sull’ultima grande illusione televisiva.

MTV ci aveva fatto credere che tre minuti di videoclip potessero cambiare il mondo. Che un canale potesse diventare piazza globale, specchio di un’intera generazione. Ora restano feed che scorriamo senza emozione.

Per noi millennials è un funerale generazionale: ci seppelliscono la colonna sonora dell’adolescenza, i pomeriggi davanti a TRL, la sensazione che da una cameretta si potesse toccare il mondo.

La verità è che MTV ci aveva già lasciati da tempo. I reality avevano sostituito i videoclip, lo streaming aveva occupato lo spazio. Ma la sua morte ufficiale segna davvero la fine di un’epoca.

MTV è stato il nostro primo social network analogico. Ci ha cresciuti, educati, manipolati, illusi. Ha fatto tutto ciò che i media di massa sanno fare, ma con un’energia che oggi ci sembra irripetibile.

Siamo cresciuti con un logo colorato che ci ha insegnato a sognare più forte delle nostre camerette. A crederci anche quando ci ripetevano che tutto era un dono del cielo, anche se era solo lavoro sottopagato e illusioni a buon mercato. MTV è stata la finestra sul mondo, la via di fuga dallo stereotipo, la crepa nel quadrato.

E quello che resta è chiaro: anche se oggi siamo adulti, precari, pieni di responsabilità e paura del domani, dentro di noi ci sarà sempre quella scarica elettrica dei pomeriggi passati a immaginare di cambiare il mondo con un videoclip. Le favole finiscono. Ma il rumore non si spegne mai.

Serena Parascandolo

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Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
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