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Burnout: l’arte di bruciare senza fiamma

Una guida di sopravvivenza tra psicologia e piccoli atti di resistenza (perché, come ci si aspettava, la società della performance ha incontrato i limiti umani). 

Alzi la mano chi non si è mai svegliato con la sensazione che il proprio letto fosse diventato l’unico posto sicuro e il proprio lavoro un campo di battaglia.

È questa la sensazione che si prova quando si convive con il burnout, quella condizione che il capitalismo ha generato per farci credere che “il problema siamo noi” e non un sistema economico che ci spreme come limoni fino all’ultima goccia.

Il burnout non è solo “essere stanchi” o “aver bisogno di qualche giorno di ferie”. È quello stato esistenziale in cui ti ritrovi a fissare lo schermo del computer come se fosse un’opera d’arte di Kandinskij, mentre la tua anima urla «Ma che cazzo sto facendo della mia vita?». È quando realizzi che hai passato gli ultimi mesi della tua esistenza a sopravvivere invece che a vivere, nutrendoti di caffè delle macchinette e ansia (spesso in parti uguali).

IL BURNOUT NON È QUELLO CHE PENSI

Facciamo un po’ di chiarezza prima di lanciarci nella rivoluzione. Il burnout è stato ufficialmente riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) solo nel 2019 come un fenomeno occupazionale caratterizzato da tre dimensioni specifiche:

  1. Esaurimento emotivo: quella sensazione di essere svuotati come un tubetto di dentifricio spremuto fino all’ultimo sputacchio. Non è solo stanchezza fisica, ma proprio l’incapacità di investire emotivamente in quello che fai.
  2. Depersonalizzazione: quando inizi a trattare le persone (colleghi, clienti, pazienti, utenti o alunni) come oggetti fastidiosi invece che come esseri umani. È il momento in cui realizzi di aver sviluppato il cinismo di un esattore delle tasse in pensione.
  3. Ridotta realizzazione personale: la sensazione che tutto quello che fai sia inutile, che non stai facendo la differenza, che non sei abbastanza, che potresti essere sostituito da una chatbot e nessuno se ne accorgerebbe. Sì, la sensazione di essere un maledetto numero tra i numeri. 

Le categorie più colpite? Operatori sanitari, insegnanti, operatori sociali, giornalisti, forze armate e in generale tutti quelli che lavorano con e per le persone. Curiosamente, proprio quelle professioni che la società considera “essenziali” ma paga come se fossero hobby del tempo libero.

LA PSICOLOGIA ENTRA IN SCENA

Il burnout non è un difetto individuale da aggiustare con un po’ di mindfulness e tisane al rabarbaro (anche se le tisane non fanno mai male, sia chiaro). È il sintomo di un sistema che ha scambiato gli esseri umani per dei macchinari da produzione, dimenticandosi che abbiamo questa fastidiosa tendenza a provare emozioni, bisogni e, occasionalmente, il desiderio di non morire di stress.

Le relazioni che intessiamo nei nostri contesti lavorativi sono spesso disfunzionali: il capo che ti scrive su WhatsApp durante le meritate vacanze, i colleghi che fanno passaparola sui tuoi momenti di difficoltà, l’ufficio HR che ti chiede come stai mentre ti licenzia… insomma, l’assurdo teratrino neoliberale.

IL GENERE HA SEMPRE QUALCOSA DA DIRE

Parliamo dell’elefante nella stanza: il burnout ha un genere, e indovinate un po’… le donne ne soffrono di più. Sorpresi, vero? 

Quando devi essere perfetta sul posto di lavoro, impeccabile a casa, splendida come madre, bellissima come partner, realizzata come donna che “ce la fa da sola” (ma non troppo, perché sennò intimidisci) … è normale che a un certo punto il sistema operativo vada in crash.

Il femminismo ci insegna che non tutte le stanchezze sono uguali. Se sei donna, queer, della classe lavoratrice, o tutte queste cose insieme, il burnout non è solo una questione di sovraccarico: è il risultato di dover costantemente dimostrare di meritare lo spazio che occupi, mentre combatti contro mille sistemi di oppressione che ti vorrebbero silenziosa ma compiacentemente grata.

Le donne spesso sviluppano quello che potremmo chiamare “burnout emotivo”: non solo siamo esauste dal nostro lavoro, ma anche dal lavoro di cura non riconosciuto che facciamo a casa, dal dover gestire le emozioni di tutti, dal dover essere sempre disponibili e sorridenti. È come avere due lavori full-time, ma essere pagate per uno solo.

IL MITO DELL’AUTO-IMPRENDITORIALITÀ

«Sii il CEO di te stesso!» tuonano i guru della produttività su LinkedIn, mentre noi ci chiediamo se è normale piangere davanti alla lavatrice perché anche lei sembra più produttiva di noi. Il neoliberismo ci ha venduto l’idea che siamo tutti piccoli imprenditori della nostra vita, responsabili del nostro successo e, soprattutto, del nostro fallimento.

Questo significa che quando andiamo in burnout, la colpa di fatto sembra solo nostra: non siamo abbastanza resilienti, non sappiamo gestire lo stress, non abbiamo le giuste strategie di coping… 

Ma il problema non è che non sappiamo gestire lo stress: il vero problema è che viviamo in una società che ha normalizzato livelli di stress che sarebbero stati considerati torture medievali.

LA RESISTENZA QUOTIDIANA

Ma ecco la buona notizia: riconoscere il burnout per quello che è (un sintomo di un sistema malato e non un nostro difetto personale) è già un atto di resistenza. Quando diciamo “no” a una riunione inutile alle 21 di domenica sera, quando spegniamo il telefono dopo le 18, quando ci prendiamo un giorno di malattia perché la nostra salute mentale conta quanto quella fisica… beh, lì stiamo facendo una piccola rivoluzione.

La cura del burnout non può essere solo individuale. Certo, la terapia aiuta, lo yoga pure, e anche imparare a dire di “no” senza sentirsi in colpa è fondamentale. Ma finché non riconosciamo che il problema è strutturale continueremo a mettere cerotti e pezze su ferite che il sistema stesso continua a infliggerci.

VERSO UNA RIVOLUZIONE DEL BENESSERE

Immagina un mondo in cui la settimana lavorativa di quattro giorni sia la norma, non un’utopia; il congedo per salute mentale sia normalizzato quanto quello per l’influenza; i luoghi di lavoro siano progettati per il benessere umano, non per la massimizzazione del profitto… Ma sogniamo in grande: immagina che valore di una persona non sia misurato dalla sua produttività e che prendersi cura di sé sia considerato un atto politico, non un lusso borghese.

Non è fantascienza: è quello che succede quando smettiamo di accettare che essere costantemente esausti sia normale e iniziamo a pretendere di più dalla vita.

LA CONCLUSIONE (CHE NON È UNA CONCLUSIONE)

Il burnout è il nostro corpo che ci dice «Ehi, questo sistema fa schifo e io non ce la faccio più». È ora di iniziare ad ascoltarlo, non per aggiustarci meglio al sistema, ma per aggiustare il sistema affinché funzioni meglio per noi.

Perché alla fine la vera domanda non è «Come faccio a evitare il burnout?» ma «Come facciamo a costruire una società in cui il burnout non sia la norma?».

E mentre ci pensiamo, prendiamoci quella pausa caffè. Anzi, facciamola durare un po’ di più del solito. È un piccolo atto di rivoluzione quotidiana.

P.S.: Se il vostro capo legge questo articolo e vi licenzia, ricordatevi che i sindacati esistono per un motivo. E se non esistono nel vostro posto di lavoro, forse è ora di crearne uno. Just saying…

Elisabetta Carbone

Illustrazione: Sonia Gianpaolo

Elisabetta Carbone

Elisabetta Carbone è psicologa clinica e sessuologa con orientamento sistemico-relazionale. Si occupa di relazioni, identità, narrazioni individuali e familiari, con uno sguardo attento alle dinamiche culturali e sociali che attraversano la psiche. Fondatrice dello studio Oikos, scrive di salute mentale con un linguaggio accessibile ma rigoroso, costruendo ponti tra psicologia e società. Vegetariana convinta, non fa un passo senza Teo, il suo inseparabile compagno a quattro zampe.
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