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Dazi e deliri: la moda italiana sotto attacco. Chi vince, chi perde, chi resiste

Dall’8 agosto 2025, gli Stati Uniti impongono dazi del 15% sulla maggior parte delle importazioni dall’Unione Europea, abiti e accessori inclusi.

In apparenza, si tratta solo di cifre, aliquote, accordi commerciali. In realtà, è molto di più, è un attacco alla catena del valore europeo, al simbolo culturale del Made in Italy e, soprattutto, alle piccole filiere che rendono grande il nostro sistema moda. Il dazio è la nuova arma geopolitica.

Cos’è successo davvero? L’Europa si inginocchia agli Usa che si impongono.

Il 31 luglio, gli Stati Uniti firmano un ordine esecutivo, dal 7 agosto decorrono i dazi su prodotti UE. Nessuna trattativa pubblica, nessuna clausola protettiva per i settori chiave italiani.
L’Europa reagisce in ritardo, in sordina, e accetta un compromesso: dazi fissi, sì, ma meglio di tariffe variabili o punitivi precedenti. Per Coldiretti e Federcontribuenti è una “resa diplomatica”, una “gestione dilettantesca” da parte della Commissione UE e della Presidente Ursula von der Leyen, che non ha negoziato per tempo né previsto misure di compensazione.
Dietro le quinte? Pressioni Usa su energia e difesa, e una moneta di scambio. Intere filiere sono merci da sacrificare.

L’Italia è la grande perdente. Secondo Coldiretti, il dazio al 15% costerà oltre 1 miliardo di euro solo nell’agroalimentare. Ma il colpo più subdolo arriva sulla moda e accessori.
Le PMI italiane, le microaziende artigiane e i distretti locali (Toscana, Marche, Campania) non hanno il potere negoziale dei colossi del lusso, loro dovranno assorbire il costo, abbassare i margini, oppure uscire dal mercato USA. Il risultato? Una moda più povera, meno diversificata, e sempre più in mano a chi può permettersi di reggere la pressione fiscale e geopolitica.

I dazi evidenziano un bivio: i grandi brand possono scegliere se aumentare i prezzi al consumo negli USA o ridurre la distribuzione. I consumatori americani potrebbero accettare l’aumento nei segmenti di lusso (chi spende 5000 dollari per una borsa, forse ne spenderà 5750).
Chi non può? Le aziende medie e piccole, loro rischiano di diventare invisibili.

Nel frattempo, Shein, Temu, Zara e compagnia low cost già preparano logistica flessibile e strategie di aggiramento dei dazi, produzione esterna, distribuzione modulare, agganci con paesi extra UE.
In breve? La moda si polarizza. Lusso elitario da una parte, fast fashion ultra accessibile dall’altra. E il made in Italy? Sospeso in questo limbo.

Il danno culturale e la moda come potere.

La moda non è solo merce, è soft power, è identità culturale. L’Italia esporta anche immaginario, stile, simboli. I dazi non tassano solo vestiti ma tassano un’idea di bellezza, di artigianato, di autonomia creativa. E questa idea oggi è sotto attacco. L’Italia, che produce l’1% del PIL globale ma rappresenta il 10% del valore immaginario della moda, è vulnerabile. Senza protezioni politiche, rischia la marginalizzazione.

Von der Leyen? Definita “inadeguata” da Coldiretti. Meloni? Fa dichiarazioni, ma non ferma l’onda.
E intanto le imprese italiane chiudono o delocalizzano. Chi vince? Chi ha già perso l’identità per inseguire la quantità.

Contromisure (mancate) e cosa serve ora

L’Europa avrebbe potuto negoziare esenzioni settoriali come su auto e aereomobili, proporre compensazioni per le PMI, specie nei settori culturali. Ma ciò che sarebbe stato necessario e che al momento non è previsto è creare un fondo straordinario per filiere agroalimentari e moda.
Niente di tutto questo è avvenuto. Le imprese sono lasciate senza rete, mentre i grandi player spostano capitale, produzione e narrazione altrove.

Il vero lusso oggi è resistere. Mantenere produzione locale, essere indipendenti, valorizzare la filiera, l’identità, l’umanità del lavoro artigianale nel pieno rispetto della sostenibilità.

Il dazio è solo un numero, eppure dietro quel numero ci sono mani, volti, storie.
La sfida è qui, tra chi ha ancora mani sporche di lavoro e chi conta i profitti nei paradisi offshore (come direbbero a Milano). Ecco cosa ci stiamo giocando, non solo la moda, la nostra identità ma la libertà di poterla fare a modo nostro.

Serena Parascondolo

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Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
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