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Il cashmere stavolta non profuma di pulito

Loro Piana e l’eleganza cucita sullo sfruttamento

Il lusso non è mai stato innocente, non è una novità.
Per raccontarsi “etico” oggi basta un’etichetta verde, un video ben girato, una campagna col logo “Made in Italy” stampato addosso. Ma sotto la superficie lucida, ovattata e desiderabile c’è una verità sporca che sta sempre più venendo fuori.

Dietro il cashmere di Loro Piana, quello che accarezziamo con stupore nelle boutique silenziose ed estremamente ordinate, c’è chi lavora in silenzio, sottopagato, invisibile.
Parliamo di filiere complesse, opache, dove il lavoro artigianale diventa sinonimo di precarietà, e la qualità ha un prezzo che non è solo economico è umano.

Loro Piana è il volto gentile del privilegio.
Quello che si racconta come “eccellenza italiana” mentre delega e silenzia.  
Quello che parla di tradizione ma sfrutta la modernità del caporalato.
Perché sì, anche nella moda di lusso si lavora come schiavi.
Solo che nessuno lo dice, perché non sta bene accostare “élite” e “sfruttamento” nella stessa frase. Stona.

E invece dovremmo iniziare a farlo.
Dovremmo dire che il lusso, oggi, non è solo simbolo di distinzione sociale ma sta diventando sempre più un modo molto raffinato di normalizzare la disuguaglianza.
Chi produce non somiglia mai a chi consuma e chi indossa non sa chi ha cucito e cosa altrettanto grave, chi paga spesso non immagina neanche cosa sta davvero comprando.

Ci hanno convinti che spendere di più significhi comprare meglio, comprare consapevole.
Che scegliere il cashmere da 3.000 euro equivalga a sostenere l’artigianato.
Ma cosa sosteniamo davvero, se dietro quella morbidezza ci sono turni disumani, salari da fame, contratti mai firmati?

Non è solo ipocrisia, è l’estetica del privilegio.
È l’illusione ben confezionata che si possa essere etici, belli e innocenti nello stesso gesto d’acquisto. Ma non si può.
Perché l’eccellenza, quando si regge sulla violenza invisibile, diventa complicità.

E noi, consumatori ben educati e quanto più progressisti, finiamo per essere complici pagando il
il sovrapprezzo del cashmere, convinti di premiare il merito.

Stiamo rendendo più sofisticato lo sfruttamento e normalizzando un sistema dove chi ha meso è solo quella forza lavoro sacrificabile. .

Chi produce lusso, conosce bene questo meccanismo e la cosa grave che per i propri interessi non fa nulla per fermarlo, la verità non vende.
Raccontare l’altra faccia del cashmere non fa branding.

Il rispetto non è un valore da indossare oltre che un diritto da garantire. Sempre. A chiunque. Anche (soprattutto) a chi non ha il privilegio di avere voce.

Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
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