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Parenti Serpenti è ancora attuale?

Nel 1992 Mario Monicelli firmava molto più di una commedia nera natalizia, raccontava un’Italia in cui, mentre politica e istituzioni perdevano forza, la famiglia veniva caricata di vecchiaia, cura, differenze e solitudine.

Trent’anni dopo, quel meccanismo non è stato superato, ma normalizzato. E forse è per questo che Parenti Serpenti continua a risultare così insopportabilmente vero.

Se cercate qualcosa che faccia riemergere lo spirito rassicurante del Natale italiano, Parenti Serpenti va evitato come la Peste. Più che un film natalizio, è uno spaccato politico che racconta lo svuotamento dello Stato, il fallimento della politica e l’illusione che la famiglia possa farsi carico di un ruolo istituzionale che non le spetta. Eppure ogni Natale torna puntuale nei palinsesti, riproposto accanto ad altri titoli come se fosse una semplice commedia nera sulle dinamiche familiari. Un errore comodo perché Parenti Serpenti non parla di una famiglia “problematica”, ma di una famiglia perfettamente rappresentativa di ciò che siamo stati e, in molti aspetti, di ciò che continuiamo a essere. Mario Monicelli, nel 1992, realizza un film che usa il Natale — simbolo per eccellenza della retorica cristiana dell’amore, della cura e del sacrificio — come strumento di smascheramento. La festa non unisce, semmai stringe e quando si stringe troppo, qualcosa si rompe.
La domanda, allora, non è se Parenti Serpenti sia ancora attuale, ma perché continui a risultare così insopportabilmente vero.

1992, Abruzzo. L’Italia ferma mentre tutto cambia

Il film esce nel 1992, anno spartiacque della storia italiana. Tangentopoli scardina la Prima Repubblica, le ideologie crollano e l’intera classe politica perde legittimità. Monicelli però non racconta il cambiamento, ma ci mostra tutta la sua rimozione. L’Abruzzo diventa il luogo ideale per fotografare un’Italia sospesa nel tempo. Il film, incentrato in una casa modesta, ordinata, ferma. Mentre fuori il Paese si sfalda, dentro quelle mura tutto sembra immutabile. Stesse frasi, stessi ruoli e stessi silenzi. Come se la famiglia fosse l’ultimo spazio in cui fingere che nulla stia davvero cambiando.

I genitori tra autorità simbolica e impotenza reale; Il padre è un carabiniere in pensione. Nell’immaginario collettivo incarna l’ordine, lo Stato, il comando. Eppure, nella vita domestica, è completamente succube di una madre iperprotettiva, come ammesso in una battuta che il film lascia scivolare con leggerezza, ma che è politicamente potentissima. È il ritratto di un’autorità svuotata dove il ruolo resta e il potere no. Come molte istituzioni italiane di allora — e non solo di allora — il padre rappresenta una funzione che non riesce più a incidere sulla realtà. La madre governa attraverso la cura, ma è una cura che controlla, stringe e alla fine soffoca. È l’altra faccia del potere, quello che non si presenta mai come tale perché si giustifica con l’amore.

I figli: quattro destini, un unico sistema

Alessandro, il compromesso progressista; Alessandro è il figlio quello buono. Ha il posto fisso, un’aria vagamente comunista anche nell’abbigliamento, si è trasferito a Modena. Sembra aver preso le distanze dal paese e dalla famiglia. Ma la distanza è solo geografica, non rompe mai davvero. È il progressista integrato, quello che moralmente si sente dalla parte giusta, ma che nella pratica non mette mai in discussione la struttura. È l’Italia di sinistra che ha imparato a convivere con il compromesso senza più chiamarlo così.

Alfredo, la verità che può esistere solo se invisibile; Alfredo si presenta come professore single. Solo più avanti emerge la sua omosessualità e la relazione stabile con un uomo. Non esplode uno scandalo, ma si diffonde l’imbarazzo. La sua identità è tollerata a patto che resti discreta, privata e non disturbante. Alfredo incarna un’Italia che non perseguita più, ma che comunque non riconosce. Puoi essere ciò che sei, purché non costringa il sistema a riorganizzarsi. Come la vecchiaia dei genitori, anche la sua esistenza eccede la norma e viene gestita attraverso una rimozione gentile o di senso opportunistico. 

Milena, la donna senza funzione; Milena non ha figli e questo la rende simbolicamente invalida a quella tavola. È mantenuta dal marito, non produce futuro e non esercita alcuna autorità morale. È presente certo ma marginale. La sua esistenza non disturba proprio perché non chiede nulla. È il ritratto di una femminilità che, fuori dalla maternità, non trova alcuno spazio simbolico.

Lina, la cura come condanna; Lina è una bibliotecaria stanca, sovraccarica, con un figlio piccolo molto sensibile e un marito che non si assume mai fino in fondo la responsabilità emotiva della famiglia. È la donna che tiene tutto insieme e per questo paga il prezzo più alto. Nel 1992 non esiste ancora il linguaggio del carico mentale o del burnout. Monicelli, con lucidità quasi profetica, lo mostra senza nominarlo. La stanchezza di Lina non produce ribellione perché non ha parole, produce esaurimento.

I consorti. L’Italia che decide senza esporsi. Gina, moglie di Alessandro, è la cattiva perfetta. Curata, evidente e fuori posto. È quella che non accetta il sacrificio come destino naturale e per questo viene demonizzata. In realtà è il personaggio più onesto perché a modo suo non finge. E in una famiglia che vive di rimozione, questo è imperdonabile; Il marito di Lina è democristiano non tanto per appartenenza politica esplicita, quanto per postura esistenziale. È l’uomo che fa, ma non dice. Quello che decide, ma non espone mai il senso delle decisioni. Il simbolo perfetto di un’Italia che ha governato a lungo senza assumersi davvero la responsabilità simbolica delle proprie scelte; Il marito di Milena appare buono, accomodante. Ma al momento opportuno sa essere cattivo. È la dimostrazione che la violenza, in questa famiglia, non ha bisogno di urlare perché è perfettamente funzionale. 

I bambini, i veri soggetti marginalizzati. Nessuno si occupa dei loro spazi, delle loro emozioni, dei loro silenzi. Tutto viene normalizzato. Il vuoto, il disagio, perfino segnali che oggi riconosceremmo come disturbi alimentari o emotivi. Parenti Serpenti racconta una famiglia che a tavola dispensa traumi come fossero tradizioni. Ed è forse questa la parte più contemporanea del film. Non è un caso se oggi la figura dello psicoterapeuta è diventata centrale, famiglie come questa hanno prodotto generazioni cresciute senza linguaggio per il proprio disagio.

La comunità mostrata: anche se Parenti Serpenti si svolge quasi interamente dentro una casa, Monicelli lascia intravedere più volte ciò che accade fuori. Non è solo la neve che cade a isolare i personaggi, ma un intero paese che continua a muoversi, consumare, partecipare ai riti collettivi. Un paesone, certo, ma non così distante dal nostro mondo iper-connesso. La differenza è che allora tutto avveniva dal vivo, le critiche, i giudizi, le malignità circolavano faccia a faccia, oggi lo stesso meccanismo si è semplicemente spostato dietro uno schermo. Nel film si vede una comunità numerosa, visibile e apparentemente compatta. Ma è una presenza solo scenografica, non è mai un sostegno reale nessuno può davvero contare sugli altri. Monicelli mostra così una collettività che esiste come rituale, non come rete. Una comunità che c’è  ma non si assume responsabilità dove ognuno pensa al proprio equilibrio, al proprio spazio e al proprio tornaconto. E ancora una volta il privato resta l’unico luogo in cui le decisioni contano davvero, mentre il pubblico si limita a fare da cornice. Ed è forse questo il dettaglio più attuale del film, non l’isolamento, ma la presenza inutile degli altri. 

Perché è ancora così attuale?

Se oggi immaginassimo una nuova versione di Parenti Serpenti, troveremmo personaggi diversi ma identicamente autentici, forse ancora più imbarazzanti. Perché rivedere questo film oggi non significa chiedersi se una famiglia così possa esistere ancora, ma riconoscere quanto poco sia cambiato il modo in cui questo Paese continua a gestire ciò che non riesce più a sostenere collettivamente. Nel 1992 lo Stato arretrava, la politica perdeva legittimità, il welfare mostrava i suoi limiti. In quel vuoto, la famiglia veniva celebrata come luogo naturale di protezione mentre, nei fatti, diventava il contenitore di tutto ciò che il pubblico non voleva o non poteva più assumersi.

Oggi il lessico è cambiato. Parliamo di salute mentale, di inclusione, di benessere psicologico. Ma spesso resta solo un chiacchiericcio. Si continua a chiedere alle relazioni affettive di reggere problemi sistemici, a trasformare questioni collettive in responsabilità individuali, a curare singolarmente ciò che viene prodotto socialmente. Forse è proprio da qui che bisognerebbe iniziare a interrogarsi: su quanto questo modello sia diventato, nel tempo, sempre più insostenibile.

Su quanta pressione continuiamo a scaricare sulla famiglia, sui legami affettivi, sulle relazioni private, chiedendo loro di reggere ciò che un sistema pubblico non è più disposto a sostenere. E soprattutto su quanto sia ancora possibile — e fino a che punto — provare davvero a cambiare questa dinamica, invece di limitarci a riconoscerla, raccontarla, analizzarla. Parenti Serpenti non è un film di Natale con un lieto fine. Non lo era allora e non lo è oggi. Non offre soluzioni, ma pone una domanda che resta aperta da più di trent’anni. E forse il vero disagio non è che il film continui a essere attuale, ma che quella domanda, nel frattempo, sia rimasta senza risposta.

Serena Parascandolo

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Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
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