Madri, non madri, figlie: una generazione a confronto con la maternità

C’è un momento nella vita della donna in cui qualcuno (di solito con un sorriso complice e una tazza di caffè in mano) chiede: “E tu? Pensi di avere figli?”. E dentro inizi a vacillare.
È una frase di per sé innocua, benevola e detta con assoluta superficialità. Ma sotto sotto c’è un messaggio implicito, è come se l’identità femminile fosse un questionario a crocette dove bisogna spuntare la casella giusta per sentirsi complete. E ti chiedi: “Quante caselle ho spuntato della mia checklist annuale?”.
Il rapporto con la maternità, che la si desideri, la si rifiuti o la si viva con ambivalenza, è uno degli snodi più potenti nella costruzione dell’identità femminile. Non perché definisca il valore di una donna, sia chiaro, ma perché si intreccia con aspettative sociali, eredità familiari e quella cosa complicata che chiamiamo “il rapporto con la propria madre”.
Diventare adulte significa fare i conti con la figura femminile che ci ha cresciute. Poco importa se biologica o adottiva: quando si parla di maternità, il confronto con la propria madre diventa inevitabile. “Voglio essere come lei” oppure “Mai come lei” sono i due poli di un pendolo che oscilla per anni, spesso senza trovare un punto di equilibrio.
Il legame madre-figlia è un campo minato di identificazioni e separazioni. Nancy Chodorow, sociologa e psicoanalista, ha spiegato come le donne costruiscano la propria identità attraverso una connessione più fluida e meno netta rispetto ai figli maschi con la figura materna. Risultato? Più intimità, ma anche più confusione. “Sono io o sono lei?” è una domanda che molte donne si pongono, soprattutto quando si trovano a scegliere se diventare madri a loro volta.
Chi decide di avere figli spesso porta con sé un bagaglio non richiesto: la paura di ripetere gli errori materni o il desiderio di riparare le ferite ricevute. “Io farò diversamente”, ci si ripete a mo’ di mantra. Ma la maternità ha la fastidiosa abitudine di tirare fuori parti di noi che pensavamo di aver lasciato nell’infanzia. E così, tra un pannolino e una notte insonne, ci si ritrova a dire esattamente quella frase che giuravamo di non pronunciare mai. Ci si reincarna, anche solo per un secondo, nella propria madre. Sbam.
Ma ci sono anche le donne che scelgono di non diventare madri. E qui le cose si complicano, perché la società ha ancora qualche difficoltà ad accettare che una donna possa sentirsi completa senza figli. “Ma te ne pentirai”, “È diverso quando sono tuoi”, “Chi ti curerà da vecchia?”… il repertorio è vasto (ma sorprendentemente ripetitivo).
Eppure, la scelta di non avere figli non è un rifiuto della femminilità, ma spesso un atto di profonda consapevolezza. Significa ascoltarsi, riconoscere i propri desideri (o la loro assenza) e accettare di deludere aspettative che non sono mai state proprie. Per alcune donne, questa scelta è anche un modo per interrompere un ciclo: “Non voglio trasmettere quello che ho ricevuto”, e va bene così.
La sociologa Orna Donath, con la sua ricerca controversa sul “pentimento materno”, ha aperto il vero vaso di Pandora: si può amare i propri figli e al tempo stesso rimpiangere la scelta di averli avuti? La risposta è sì, e questo non fa di una donna un mostro o una mantide religiosa, fa di lei un essere umano che ammette la complessità. Riconoscere che la maternità non è per tutte, e che va bene così, è un passo verso una società più onesta.
Poi c’è il grande rimosso: l’ambivalenza. Perché non tutte le donne sono divise nettamente tra “voglio figli” e “non li voglio”. Esiste anche la categoria di quelle “che boh…”. Molte navigano in una zona grigia fatta di dubbi, paure e desideri contrastanti, “Forse sì, forse no, dipende”. Ma la società preferisce le narrazioni chiare, escludenti e, ovviamente, possibilmente a lieto fine.
L’ambivalenza è scomoda perché ci costringe a convivere con l’incertezza. È la madre che ama i figli ma rimpiange la libertà perduta. È la donna senza figli che ogni tanto si chiede “e se…?”. È la figlia che guarda la propria madre e non sa se ringraziarla o accusarla per quello che è diventata.
La psicologa Rozsika Parker ha dedicato un intero libro al tema dell’ambivalenza materna, sostenendo che sia non solo normale, ma anche necessaria per una maternità sana. Amare e odiare, desiderare e respingere, questi opposti coesistono e non si annullano: fingere il contrario significa costruire un’immagine irrealistica che danneggia sia le madri sia le figlie.
Ma il vero punto è un altro: non si smette mai di essere figlie.
Anche quando si diventa madri, anche quando si sceglie di non esserlo. Il legame con la propria madre (fatto di amore, rabbia, gratitudine, risentimento e altri mille sentimenti contrastanti) continua a modellarsi e modellarci. E forse la vera maturità non sta nel risolvere questo rapporto, ma nell’accettarne la contraddizione.
Alcune donne trovano nella maternità un modo per riconciliarsi con la propria madre, vedendola finalmente come persona e non solo come figura di accudimento; altre trovano nella scelta di non avere figli una forma di liberazione da un copione già scritto; altre ancora vivono in bilico, cercando una strada propria tra modelli ereditati e desideri personali.
Oltre la “casella da spuntare”, l’identità femminile non si costruisce solo in relazione alla maternità, ma negarle un ruolo importante sarebbe ingenuo. Il punto è uno solo: smettere di considerarla un obbligo, una tappa obbligata del “diventare donna”. La maternità, vissuta, desiderata, rifiutata, ambita o temuta, è una delle possibili narrazioni, non l’unica.
E forse dovremmo iniziare a raccontarci storie più oneste: madri che non si sentono sempre realizzate, donne senza figli che non si sentono incomplete e figlie che non hanno ancora capito cosa vogliono. Perché l’identità non si costruisce con risposte definitive, ma con domande che continuiamo a porci.
Nel frattempo, la prossima volta che qualcuno ti chiede “E tu? Pensi di avere figli?”, puoi sempre rispondere: “Ci sto pensando da trent’anni. Ti aggiorno”.
Elisabetta Carbone
Immagine: Unsplash
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