La trappola invisibile: come la dipendenza affettiva si intreccia alla violenza di genere

Quando l’amore diventa una prigione, quando il bisogno dell’altro trasforma il sentimento più nobile in ossessione distruttiva, quando il legame romantico diventa una catena che soffoca l’identità, la libertà e la vita stessa…
Ecco, quando questo accade, siamo di fronte alla dipendenza affettiva, una sofferenza psicologica sempre più presente negli studi degli psicologi, nelle aule di tribunale e nei resoconti di cronaca nera, che punteggiano la quotidiana tragedia dei femminicidi.
I più bei libri che ho letto, i più bei film che ho visto, le più belle canzoni che ho ascoltato hanno come tema l’amore. Amore folle, passionale, puro, amore criminale, carnale, amore in tutte le sue forme, sane e patologiche. Amore come rinascita ma anche come morte, relazione che nutre o che avvelena, foriera di miele o di fiele a seconda degli attori, della trama, del testo, delle parole.
L’essere umano, dagli albori dei tempi e dalla nascita della storia, ha lasciato tracce d’amore nelle pitture rupestri, negli antichi manufatti raffiguranti veneri giunoniche e copiose di curve, nei putti e nei cupidi, nelle chiese e nelle catacombe: ovunque guardiamo c’è una traccia umana che porta testimonianza d’amore.
L’amore è arte, poesia, sesso, complicità, resilienza, accettazione, dolore? L’amore è espressione dell’umanità in quanto tale o è una mera manifestazione di impulsi biochimici, scariche di neurotrasmettitori e attivazione di aree cerebrali specifiche? L’amore può diventare una patologia, tanto da portare solo dolore in un circolo vizioso di sofferenza e umiliazione? L’amore può arrivare a far male? Si può morire d’amore?
Quando ci poniamo domande come che cos’è l’amore? si risveglia in noi il bambino dei tanti perché, ma dalle poche risposte. I quesiti di questo tipo rievocano in noi prima che delle parole delle immagini: alla mente tornano come gocce di memoria visi, baci, mani, carezze, abbracci e fotografie di relazioni, presenti o passate che siano.
QUANDO L’AMORE SMETTE DI ESSERE AMORE
La dipendenza affettiva patologica (DAP), anche nota come love addiction, rappresenta un fenomeno complesso che trasforma un bisogno naturale, quello di essere amati, in un dolore devastante.
Non si tratta semplicemente di amare profondamente, ma dell’incapacità di riconoscere il proprio valore al di fuori della relazione, di vivere nell’ansia costante del rifiuto, è accettare comportamenti maltrattanti pur di non rimanere da soli.
Chi ne soffre costruisce un’immagine di sé interamente dipendente dall’altro, percependosi come fragile, bisognoso, incapace di vivere ed esistere autonomamente. La persona amata non è più un partner con cui condividere la vita, ma diviene il fulcro di ogni attività, di ogni desiderio e di ogni scelta. Il lavoro, gli amici e la famiglia passano in secondo piano, i propri bisogni vengono negati o annullati, la vita si contrae a un’unica dimensione: la relazione.
Quello che caratterizza la dipendenza affettiva è il mantenimento della relazione anche quando causa sofferenza, anche quando il partner è poco attento, poco amorevole o mai rispettoso. In questi casi, il circolo vizioso si auto-alimenta: chi soffre di dipendenza affettiva, sentendosi indegno d’amore, sceglie naturalmente una persona che lo conferma in questa convinzione. E il partner, spesso dotato di tratti narcisistici, trova nella dipendenza altrui il nutrimento del suo bisogno di controllo e dominio.
UNA FERITA D’INFANZIA
Le radici di questa patologia affondano lontano. Le ricerche nel campo della psicopatologia evidenziano che le persone affettivamente dipendenti hanno probabilmente ricevuto, durante l’infanzia, messaggi contrastanti sui loro bisogni: non erano sufficientemente ascoltati, i loro affetti non trovavano risposta adeguata, oppure hanno sperimentato legami poco funzionali con i propri genitori, con modelli d’attaccamento insicuro che si sono cristallizzati nel tempo.
Così il dipendente affettivo cresce con la convinzione che il riconoscimento e la sicurezza devono arrivare sempre dall’esterno, e specificamente dal partner. Una ferita antica che, consapevolmente o no, viene colmata offrendo un amore illimitato e sacrificale, nella speranza che questa volta, finalmente, sarà ricambiato come meriterebbe.
Il conflitto è irrisolvibile: da una parte la consapevolezza della sofferenza, la rabbia e il riconoscimento che il partner non cambierà; dall’altra la paura dell’abbandono, ancora più paralizzante del dolore presente. Oscillare tra questi poli (la volontà di separarsi e il terrore di restare soli) è uno stato psicologico che consuma.
IL FEMMINICIDIO COME ESTREMO EPILOGO
Ecco dove la questione diventa urgente, drammatica e letale. Perché la dipendenza affettiva rappresenta un fattore di rischio rilevante per la violenza all’interno della relazione sentimentale.
In Italia, i numeri della violenza di genere raccontano una storia agghiacciante. Nel 2024, sono state 106 le donne vittime di femminicidio, il 91,4% del totale delle uccisioni di donne. 62 di queste sono state uccise dal partner o dall’ex, entro la cerchia delle relazioni che dovrebbero essere spazi di protezione e intimità. Nel 2025, fino al 20 ottobre, il bilancio risulta ancora pesante: 85 donne uccise, con la Lombardia che registra purtroppo il maggior numero di casi.
Dietro ogni numero si nasconde una storia di manipolazione relazionale e di paura. Dietro ogni femminicidio c’è spesso una donna che non è riuscita a uscire dalla relazione, o che lo ha tentato, e il tentativo stesso è diventato causa del crimine.
La dipendenza affettiva non esclude comportamenti manipolativi e coercitivi. Chi ne soffre mette spesso in atto tentativi di controllo soffocante del partner, certi che il controllo possa garantire la permanenza della relazione. Nel contempo, il dipendente accetta questi comportamenti, li internalizza quasi come prova d’amore o come gesto di protezione.
Emergono dinamiche in cui uno dei due si pone come “salvatore” e l’altro come “bisognoso”. Oppure il ruolo si inverte: chi apparentemente dipende controlla ossessivamente attraverso la manipolazione affettiva, ricatti emotivi, minacce di autolesionismo. In una relazione tra un narcisista (il dominante) e un dipendente affettivo (il sottomesso), queste due esigenze si intrecciano in un balletto letale.
QUANDO LA PAURA DIVENTA VIOLENZA
La paura della separazione, della perdita e del cambiamento è centrale nella dipendenza affettiva, limitando il proprio partner nello sviluppo di interessi personali e capacità individuali, temendo che qualsiasi evoluzione possa destabilizzare il fragile equilibrio della relazione. Quando poi la separazione si concretizza, quando la donna decide di andarsene o quando l’ex la lascia definitivamente, questo terrore può trasformarsi in rabbia distruttiva.
I casi di cronaca recente lo testimoniano. Donne uccise perché avevano un’altra relazione, perché volevano separarsi, perché avevano espresso l’intenzione di andarsene. Uomini che non tolleravano la fine della simbiosi, che vedevano nella separazione un annichilimento di sé. Talvolta il femminicida compie un gesto che segue quasi immediatamente il riconoscimento del fallimento della relazione, suicidandosi, confessando senza volerlo l’impossibilità psicologica a vivere fuori dal legame.
Nel 2025, 25 uomini colpevoli si sono tolti la vita subito dopo il delitto. Questo dato rivela l’intensità del legame patologico, la fusione identitaria raggiunta, l’incapacità di immaginare un’esistenza al di là della relazione… anche nel momento della sua massima violazione.
IL RUOLO DELLA SOCIETÀ E DELLA CULTURA
È significativo notare che la dipendenza affettiva patologica colpisce prevalentemente le donne, anche se si manifesta negli uomini con caratteristiche diverse, spesso più mascherate, più drammatiche. Nel genere maschile il disturbo rimane nascosto perché il condizionamento culturale impone l’apparenza della forza, dell’autonomia e del controllo emotivo.
La società patriarcale che permea ancora la cultura tende a confondere la dipendenza affettiva con l’amore romantico, a celebrare l’abnegazione femminile, a trasformare la sacrificalità in virtù.
Questo contesto rende ancora più difficile l’uscita dalla relazione. Chi soffre di dipendenza affettiva non sempre riconosce il proprio disagio come problema: per lei è amore, anche se un amore che soffoca. Per la società che l’osserva, rimane una scelta privata, quasi una passione romantica, non una patologia che richiede intervento.
RICONOSCERE PER GUARIRE
Il primo passo verso la guarigione è sempre il riconoscimento. Il dipendente affettivo deve arrivare a comprendere che ciò che vive non è amore sano, ma sofferenza. Deve riconoscere i pattern di pensiero disfunzionale: l’idealizzazione dell’altro, la svalutazione di sé e la convinzione che il benessere psicologico dipenda unicamente dal partner.
La psicoterapia può accompagnare questo percorso. L’obiettivo è duplice: comprendere l’origine della dipendenza, spesso risalendo agli attaccamenti insicuri dell’infanzia; sviluppare una forma di pensiero orientato verso sé, verso i propri bisogni e verso l’ascolto dei propri diritti.
Non è semplice. Chi è abituato a organizzare la propria vita interamente in funzione della continuità della relazione non sa come scegliere autonomamente. Il dipendente affettivo ha scarsa agency (la capacità di portare avanti un piano d’azione che nasca da dentro), anche di fronte all’assenza di supporto relazionale. La terapia deve ricostruire questa agentività, deve insegnare che è possibile vivere significativamente anche quando la relazione manca, che il valore personale non dipende da come ci vede il partner. È un percorso che richiede tempo, dedizione, spesso il supporto di una comunità di persone che comprendono il disturbo.
Ma è necessario, è vita.
VERSO UNA CONSAPEVOLEZZA COLLETTIVA
L’Italia ha iniziato a prendere misure concrete. Il Codice Rosso ha esteso protocolli urgenti ai casi di violenza di genere. I braccialetti elettronici si moltiplicano (da circa 3.400 dispositivi nel 2022 a oltre 11.000 nel 2024) per monitorare i maltrattanti. Le denunce aumentano, segno che le donne trovano gradualmente il coraggio di uscire dal silenzio.
Ma il cammino rimane lungo. Serve educazione fin dalle scuole sulla differenza tra amore sano e dipendenza affettiva. Servono servizi di psicoterapia accessibili, non solo per le vittime ma anche per chi esercita violenza, perché anche loro sono vittime di una patologia relazionale. Serve una campagna culturale che smantelli il mito romantico della donna innamorata fino al sacrificio.
Serve riconoscere che la dipendenza affettiva patologica non è destino, non è sfortuna sentimentale inevitabile, è una sofferenza psicologica, ma è una sofferenza da cui si può guarire.
Occorre che le donne sappiano che non è amore quello che soffoca, che non è dedizione quella che nega se stessi, che è possibile amare in modo reciproco, libero, consapevole. E che chiedere aiuto non è debolezza: è il primo gesto di forza.
Elisabetta Carbone
Immagine: Illustrazione di Sonia Giampaolo
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