Il tartan, punk o natalizio?

Se il tartan avesse una biografia, inizierebbe così:
«Ero un tessuto rispettabile, poi ho conosciuto Vivienne Westwood.»
Da quel momento la sua storia cambia completamente direzione e se per alcuni si rovina, per altri si libera. La verità, come sempre, sta nello sguardo di chi osserva.
Il tartan è una fantasia che sembra non aver mai scelto davvero chi essere.
In un momento è la tovaglia del pranzo di Natale, simbolo di calore familiare e rassicurazione domestica e un attimo dopo è la gonna perfetta per fuggire proprio da quel pranzo, con la stessa naturalezza con cui si cambia stanza. È un pattern che vive da tempo nel paradosso, tra appartenenza e fuga, ordine e caos, tradizione e ribellione nello stesso metro di tessuto.
Cos’è davvero il tartan?
Dal punto di vista tecnico è un intreccio di quadretti rigidamente costruito, una struttura che segue regole precise. Ma culturalmente il tartan è tutt’altro. Rappresenta un disadattato in continuo mutamento, un tessuto che non smette mai di stare lì a negoziare la propria identità. Si adatta e scivola tra i contesti, una condizione che ci riguarda più di quanto vorremmo ammettere.
Alle origini, nella Scozia pre-industriale, il tartan aveva un significato preciso e quasi sacrale. Ogni combinazione di colori, ogni sett, corrispondeva a un clan, a un territorio, a una stirpe riconoscibile. Era un linguaggio immediato, un modo per affermare chi eri e da dove provenivi senza ricorrere alle parole.
Tutto questo però cambia radicalmente nell’Ottocento, quando la Scozia diventa oggetto del desiderio per viaggiatori romantici, scrittori, collezionisti vari. L’industrializzazione permette di produrre tartan su larga scala e, insieme al tessuto, si costruiscono anche le storie che lo giustificano. Molti pattern che si definivano “antichi” non avevano alcuna radice storica, erano invenzioni fresche di laboratorio tessile, create per soddisfare quella crescente domanda di autenticità. La Scozia, più che un luogo, diventa un marchio globale. E il tartan, di conseguenza, diventa il suo logo commerciale. Familiare vero? Beh vi assicuro che erano quegli anni lì.
Col tempo il tartan lascia le Highlands per migrare verso altri territori, cresce, si forma. Le uniformi dei college britannici, i salotti borghesi, le case eleganti. Diventa un oggetto rassicurante, familiare, quasi prevedibile. Il tipo di fantasia che ti concilia il sonno per capirci. Ed è proprio quando sembra destinato a una vita di compostezza che qualcosa o meglio, qualcuno arriva a ribaltarlo completamente.
Vivienne Westwood entra in scena
Prima di Vivienne Westwood, il tartan era un tessuto consapevole del proprio ruolo e ben disposto a ricoprirlo quasi rassegnato al suo noioso destino. Credeva che la tradizione fosse una casa stabile, non una struttura rigida da cui emanciparsi.
Quando Vivienne posa lo sguardo su di lui, vede immediatamente altro. Vede un simbolo che si è adagiato nella propria storia, e una storia che non parla più al presente. Vede un pattern che potrebbe fare molto di più, ma che continua a recitare la parte che gli è stata assegnata secoli prima.
E così gli rivolge la domanda che lo libererà per sempre dalle sue origini:
«E se smettessi di dire da dove vieni e iniziassi a dire dove vuoi andare?»
Il tartan non risponde forse perché nessuno gli aveva mai dato la possibilità di farlo.
Vivienne, intanto, agisce. Prende le forbici e compie il gesto che cambierà la storia della moda, il kilt, simbolo di mascolinità e orgoglio identitario, diventa una minigonna che non appartiene più a nessun genere. Lo taglia, lo apre, lo sovverte. Non lo distrugge, lo hackera. È in questo momento che il tartan scopre che può essere anche altro, che può vivere su corpi diversissimi, su persone che non desiderano spiegarsi e su chi non si riconosce nella genealogia che gli è stata assegnata. Londra punk lo accoglie come uno dei suoi simboli più credibili non perché sia ribelle a effetto, ma perché è autentico proprio nella sua metamorfosi. È il primo tessuto a incarnare, prima delle parole, la frase che definirà un’intera generazione: «Io non appartengo a ciò che ho ereditato.»
Ed è per questo che ancora oggi, anche la più innocente delle tovaglie natalizie conserva, in silenzio, una scintilla. Una memoria latente, una piccola rivoluzione che rimane in attesa sotto il plaid della nonna. Potrebbe svegliarsi in qualsiasi momento basterebbe ricordarsi dove sono finite le forbici.
Dal punk al natalizio rassicurante, come è potuto accadere?
Come accade a molti simboli culturali, il tartan viene progressivamente assorbito dal mainstream. Quando il punk perde la sua carica e diventa estetica, il mercato recupera il tartan, lo riordina, lo ripulisce e lo restituisce al mondo in una versione addomesticata fatta di pigiami coordinati, coperte soffici, plaid natalizi pronto a fare da cornice alla dolce famigliola col cagnolino e il camino (finto il più delle volte)
Non è il tartan che cambia natura, macchè! Piuttosto è il sistema che lo riadatta.
Il capitalismo ha un’abilità straordinaria nel riconoscere ciò che funziona a livello visivo ed emotivo, trasformandolo in prodotto e così il tartan che gridava “nessuna tradizione mi possiede” diventa lo stesso tartan che, qualche anno dopo, sussurra “la tradizione siamo noi”.
La trama rimane identica, ma il significato si rovescia. Ed è proprio questa inversione che rende il tartan unico, da un lato ribellione contro la genealogia, dall’altro genealogia che ingloba la ribellione. Un pattern che esiste in due mondi opposti senza perdere credibilità né da un lato né dall’altro ed è proprio questo che lo fa sopravvivere. Non è punk né natalizio, è entrambe le cose e nessuna delle due. È una texture perfetta per raccontare un tempo come il nostro, che si muove a una velocità tale da richiedere simboli capaci di adattarsi senza collassare. Forse ci affascina perché contiene ciò che noi, culturalmente, non riusciamo più a conciliare, la famiglia da cui scappiamo e quella che proviamo a costruire; così come l’appartenenza che ci pesa e quella che cerchiamo davvero.
Il tartan, in fondo, è una tovaglia che sogna una rivoluzione ma anche una rivoluzione che, a volte,
ha sinceramente bisogno di una coperta calda.
Serena Parascandolo
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