Il rosso si faccia da parte perchè il Natale può anche cambiare colore

Il rosso del Natale è un po’ come quel parente che si presenta ogni anno alle feste, quello ingombrante, invadente e convintissimo di essere ancora il protagonista (di solito indossa un maglioncino rosso)
Ma da dove arriva tutta questa sicurezza cromatica? E soprattutto: chi gli ha dato l’esclusiva sulle emozioni di dicembre?
La verità è che il rosso non nasce per decorare tazze, plaid o maglioni con renne tristi e brutte.
Nasce come colore rituale, simbolo di vita in mezzo al buio. Poi, col Cristianesimo, diventa ufficialmente sacro, liturgico, teologico. Il colore dei mantelli dei santi, della Passione, della potenza divina – insomma, un Pantone che non scherzava.
E non scherza neanche fuori dalle chiese: il rosso è anche un colore politico, quello delle rivoluzioni, del comunismo che ha infiammato secoli, dell’“A” anarchica tracciata sui muri. Altro che maglioni natalizi e mantelloni da cardinali.
E dopo aver attraversato secoli di simboli – dal sacro al sovversivo – il rosso fa un salto ancora più grande: entra nell’immaginario pop.
Ed è qui che arriva la Coca-Cola, che non lo inventa affatto, ma gli dà una nuova divisa, una nuova storia e soprattutto un nuovo mercato.
Molto prima che la bibita lo “impacchettasse”, il rosso era già ovunque. La Coca-Cola ha semplicemente preso un colore millenario e l’ha trasformato in un claim globale. Succede, alle migliori tradizioni.
Ma la palette del Natale non è solo rosso.
In realtà il rosso è solo il più arrogante, quello che arriva per primo e si comporta come se gli altri colori fossero comparse. E invece no, il verde, l’oro e il bianco hanno una voce più discreta, ma molto più profonda.
C’è il verde, ad esempio. Il colore dell’abete, della testardaggine della vita, della resistenza pura come quel “ci sono ancora” che attraversa gli inverni più duri. Non fa scena, quasi come background che tiene insieme tutto. È la spina dorsale del Natale.
Poi c’è l’oro. Che molti interpretano come lusso, ma in realtà è solo un’imitazione del sole, un tentativo di trattenere la luce nel momento dell’anno in cui ce n’è meno. È un colore che promette più di quanto ostenti, che somiglia alla grazia più che alla ricchezza. L’oro è la promessa del Natale.
E infine il bianco. Che non rappresenta affatto la purezza – quella è roba da cataloghi – ma il silenzio. Il bianco è la neve che copre, che sospende e che fa tacere come una pausa necessaria, col bianco non succede niente ma può succedere tutto. Perché Natale comincia sempre da lì, da una pagina vuota.
Una palette colori che, se guardata bene, solletica la psicologia perché pare quasi rappresentare i nostri stati d’animo travestiti da decorazioni, un moodboard costruito in secoli di folklore, religione, desideri e malinconie. Il Natale, alla fine, è tutto lì, in una palette apparentemente innocua che però parla più di noi che delle festività.
E poi, naturalmente, arriva la prosopopea.
Perché quando qualcosa sembra dire tutto — e dire tutto “giusto” — prima o poi a qualcuno viene voglia di cambiarla.
Qualcuno che ha guardato quel rosso eterno e ha pensato: “Ok, basta, hai parlato abbastanza”.
(D’altronde lo conosciamo: è lo stesso parente invadente col maglioncino rosso che si presenta ogni anno.)
Così, nei secoli — e soprattutto negli ultimi — l’incantesimo ha iniziato a frantumarsi. Nella tavolozza del Natale si è fatto spazio tutto ciò che, fino a poco tempo fa, sembrava impossibile anche solo immaginare ed è qui che il discorso si fa interessante.
Perché negli ultimi anni la palette classica del Natale è stata completamente rivisitata (per fortuna, e sì: grazie a Dio, è proprio il caso di dirlo).
Ogni dicembre spuntano alberi che con la tradizione hanno lo stesso rapporto che abbiamo noi con le fotografie di vent’anni fa: vagamente riconoscibile, ma profondamente diverso.
Ci sono alberi capovolti come installazioni contemporanee, alberi completamente neri in perfetto minimal apocalittico, alberi fatti solo di libri impilati. Alberi di plastica trasparente illuminati dal basso in stile Berlino, altri ancora composti da tubi idraulici, grucce appendiabiti, reti metalliche, pannelli di plexiglass.
E poi le decorazioni: palline glitter recuperate dalla spazzatura, pupazzi deformi ma ricuciti trovati ai mercatini dell’usato, pigne verniciate in fluo, gamberetti in resina con la faccia simpatica appesi al posto delle classiche sfere, perfino scarpe spaiate trasformate in addobbi surreali. E intanto il rosso osserva e non sa che dire, anche perché — diciamolo — negli anni hanno rivitalizzato pure lui, stirato, lucidato, reso pop, vintage, glitter, persino opaco.
Ma stavolta non basta, per la prima volta sente davvero di non essere più il centro della scena.
Il parente egocentrico un po’ trema, col suo maglioncino rosso caldo e rassicurante non è più il protagonista incontrastato. E questo, culturalmente parlando, è un atto liberatorio.
Cambiare la palette del Natale significa cambiare l’immaginario e permettersi di uscire dalla narrazione del “Natale perfetto” e costruire un’estetica più sincera, più libera, più nostra. E allora ben vengano gli alberi disallineati, i colori improbabili, le palline riciclate e tutta quella creatività che sostituisce l’omologazione. Ben venga tutto ciò che ci ricorda che il bello non è per forza tradizione e la tradizione non è per forza verità.
Forse è questo il lato più rivoluzionario del Natale contemporaneo, non comprare qualcosa di nuovo, ma vedere il potenziale di ciò che è già qui.
Il Natale, in fondo, è anche un invito a fare pace con le cose storte, recuperate e imperfette e provare a farle brillare di nuovo magari di un rosso diverso, più aranciato; o di un verde che sa meno di abete e più di contaminazione acida. Perché sì, anche questo è speranza.
Che poi, a pensarci bene… è molto più natalizio di qualsiasi rosso perfetto.
Serena Parascandolo
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