Il Natale e la lotta di classe

Il Natale e la lotta di classe non sembrano due concetti destinati a incontrarsi. Eppure oggi riflettono il cambiamento profondo della società.
La lotta di classe non è più quella delle fabbriche, dei cortei, delle categorie nette. È diventata più sottile, frammentata, trasversale. Colpisce anche chi, in passato, apparteneva alle professioni “alte”: insegnanti, intellettuali, creativi, operatori culturali, lavoratori della conoscenza.
Si è poveri anche avendo un lavoro e si è precari anche con un titolo di studio elevato come si è vulnerabili anche quando all’esterno si appare “sistemati”.
Il Natale, che un tempo era quel rituale stabile oggi si è trasformato allo stesso ritmo.
Il famoso “Natale di una volta” aveva elementi oggi quasi impossibili da replicare, la tavola imbandita senza limiti, i viaggi familiari, lo stare insieme come fatto automatico. Quel Natale apparteneva a un mondo con un’economia diversa, ritmi diversi e costi diversi.
Un mondo che oggi semplicemente non esiste più.
Le luci di dicembre non accendono solo le strade, illuminano le distanze.
La tavola della tradizione – quella ricca, abbondante, orgogliosamente eccessiva – oggi per molti è un lusso. Non solo per il caro-prezzi e l’inflazione, ma perché riprodurre quell’immaginario richiede risorse che non sono più scontate.
E poi, diciamolo, molte di quelle tavole conservavano sprechi enormi, cibo cucinato in eccesso e piatti che nessuno amava davvero. Era un simbolo di un’epoca, non un requisito per esistere.
E lo “stare insieme”? Oggi è una lotta nascosta.
Spostarsi per raggiungere parenti e amici è costoso, soprattutto per chi vive lontano dalla città di origine. Siamo tutti un po’ migranti, pendolari, precari. I voli per “scendere al Sud” costano più del menu di Natale e anche solo sedersi a quel tavolo implica un investimento economico che molti non possono sostenere.
Il punto è semplice e scomodo, il Natale non è più paragonabile a quello di anni fa perché la società non è più quella di anni fa.
Possiamo rivitalizzare la tradizione, certo, ma dobbiamo anche accettare che la classe oggi è un problema grave e complesso. Che la povertà non è più quella dell’immaginario collettivo.
Non è l’immagine stereotipata del “povero che non ha nulla”, ma anche quella di chi ha qualcosa che non può mantenere. Avere una macchina non ti colloca in una classe superiore se alla prima rottura non hai i soldi per ripararla, la vulnerabilità economica ha molte facce e il Natale spesso le illumina tutte.
Poi c’è l’altra parte, quella che non può essere misurata con i dati, la parte emotiva.
Il posto vuoto a tavola che pesa più di qualunque inflazione come la casa lontana che quest’anno resta irraggiungibile non per scelta ma per costi, ritardi, precarietà.
I regali non comprati non per mancanza d’affetto, ma per la fatica concreta di sostenere un dicembre che chiede più di quanto molti possano dare.
Sono desideri che negli occhi degli altri sembrano possibili, quasi ovvi, mentre nei propri diventano lontanissimi. E allora il Natale non divide chi è felice da chi non lo è divide chi ha qualcosa da stringere da chi, quest’anno, deve stringere un po’ più forte sé stesso.
Non è una questione di colpa, di merito o di fallimento personale è una questione di contesto, di condizioni e di semplice consapevolezza.
Rendere questo periodo più leggero non richiede magia. Richiede ascolto.
La capacità di riconoscere la storia delle persone, di accorgersi che dietro il “non posso venire” o il “quest’anno passo” non c’è disamore ma un corpo e un portafoglio che stanno cercando di non cedere.
Un invito, un messaggio, un “ti penso”, un posto aggiunto a tavola rappresentano gesti minimi che all’apparenza non valgono niente, ma che possono illuminare chi si sente fuori dalla scena.
Non risolvono la vita, non cambiano lo stipendio e non cancellano la precarietà ma per un istante aprono una breccia, una sospensione del peso. E a volte questo basta per respirare.
Per questo oggi possiamo permetterci di ridiscutere il simbolo più sacro della tradizione: la tavola imbandita. Che ben venga, invece, una tavola solo apparecchiata, essenziale, possibilmente reale.
Che ben venga un piatto di pasta semplice, che non appartiene al mito della tradizione ma all’amore quotidiano, quello vero, quello che non ha bisogno di rappresentarsi.
Non sarà instagrammabile, o forse sì, forse dovremmo iniziare a instagrammare la verità, la società nuova, quella che non ha paura di mostrarsi senza decorazioni.
Una comunità che non usa il Natale per nascondere le differenze, ma per guardarle insieme senza vergogna.
Perché la lotta di classe, oggi, passa anche da qui, dall’accettare che ciò che eravamo non è più ciò che siamo e riconoscere che la fragilità non è un difetto ma una condizione condivisa.
E allora sì che forse questo è il gesto più radicale di tutti. Non salvare il Natale perfetto, ma costruirne uno possibile autentico e umano.
E forse, proprio questo, è la forma più concreta e più rivoluzionaria di lotta di classe.
Serena Parascandolo
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