Il burnout delle feste

Organizzazione, cura, consumo e aspettative, perché normalizzare lo spirito delle feste significa smettere di fingere che siano uguali per tutti.
Le feste, soprattutto quelle natalizie, sono un fiume in piena di emozioni, aspettative e obblighi sociali. Per molte persone questo periodo rappresenta insieme una croce e una delizia. Da qualunque angolazione lo si osservi, il tempo delle feste richiede energie, organizzazione e una quantità di lavoro – materiale e simbolico – che raramente viene riconosciuta.
Il primo elemento critico è l’arresto improvviso del lavoro o dello studio. Avviene in pieno inverno, in un momento dell’anno che non coincide con l’idea di vacanza a cui siamo culturalmente allenati. Il capitalismo performativo, ormai interiorizzato, ci ha programmati a una vita scandita da ritmi meccanici e continui, e l’interruzione forzata di questi ritmi, anche solo per pochi giorni, diventa per molti una fonte di disagio: nello stacco, prima, e nella ripresa, poi.
A questo si somma l’accavallarsi di impegni. Scadenze, regali, documenti, esami, pranzi, cene. Tutto deve essere “a posto” entro una data precisa, come se fosse la fine di un’era storica. Ma cosa succede se non lo è? Nulla. Ed è da qui che si dovrebbe ripartire: dall’idea che non succede niente. Normalizzare lo spirito performativo delle feste significa, prima di tutto, smontare questa urgenza artificiale.
Un’urgenza che non pesa su tutti allo stesso modo. Non si distribuisce in maniera uniforme e orizzontale; al contrario, segue linee di potere ben definite, inscritte nei ruoli sociali e nelle aspettative storicamente costruite. È proprio qui che lo spirito delle feste smette di apparire come un tempo condiviso e rivela la sua natura profondamente diseguale.
La dicotomia di genere è evidente. Gli uomini – maschi, cis, etero, bianchi – sono spesso chiamati alle “armi” del fare: spese, trasporti, montaggi e varie incombenze pratiche. Le donne, invece, assorbono un carico ulteriore e continuo, fatto di organizzazione, pianificazione, cura, preparazione prima, durante e dopo le feste. Viene spontaneo chiedersi come si faccia a chiamarle vacanze.
Se si sposta l’asticella sull’intersezionalità, la frattura si amplia. Questo periodo non è uguale per tutte e tutti, nemmeno dal punto di vista etnico. In una società che ha stabilito questo tempo come norma dominante, anche chi non festeggia è spesso costretto a subirne gli effetti: chiusure, rincari, sovraffollamento, blocchi forzati. Una forma di suprematismo culturale normalizzato, raramente messa in discussione.
E poi c’è la classe. Il Natale non è uguale per ogni classe sociale. Non si tratta solo dei menu delle feste, ma di tutto ciò che ruota intorno a questo periodo: tempo libero, spazi, possibilità di scelta, accesso al consumo, gestione dello stress. Le disuguaglianze diventano visibili, quasi violente.
Normalizzare lo spirito delle feste significa riconoscere il meccanismo capitalistico tossico che lo sostiene e che ne ha progressivamente snaturato il senso. Il Natale è probabilmente il più antico e riuscito esempio di washing. Ogni decennio ha aggiunto un tassello, costruendo una narrazione che oggi si è trasformata in una gabbia. Continuiamo a inseguire l’idea delle feste “come una volta”, tentando di riprodurle a ogni costo, senza accettare la frattura antropologica ormai evidente. Possiamo decorare gli alberi con luci colorate, ma quelle luci appartengono a un altro tempo. Oggi sono una citazione: un riadattamento nostalgico, forzato e spesso finto.
Le ideologie, anche quelle dello spirito natalizio, sono in burnout, esattamente come noi. Non reggono più ritmi che sono stati, almeno in parte, malsani e che oggi risultano insostenibili, perché le variabili economiche, sociali e culturali non si intersecano più come prima.
Normalizzare lo spirito delle feste significa acquisire consapevolezza della disomogeneità delle esperienze. Significa smettere di sentenziare, di giudicare e di pretendere uniformità, continuando a forzare un modello che non tiene più.
Se il pranzo delle feste non rispetta il menu tradizionale, non succede nulla. Anzi, è lo specchio più onesto di un periodo che è ormai, in ogni senso, messo in discussione.
Normalizzare lo spirito delle feste non significa salvarlo, né recuperarlo. Significa guardarlo per quello che è diventato: un dispositivo stanco e sovraccarico, che continua a chiedere armonia mentre produce fratture continue. Le feste non possono essere una cosa sola e non esiste un unico modo giusto di attraversarle. Se il pranzo non è quello tradizionale, se la famiglia non è quella prevista, se la gioia non arriva puntuale, non c’è nulla da correggere: è solo lo specchio di un tempo che non riesce più a reggere le proprie promesse.
Provare a normalizzare lo spirito delle feste, oggi, è forse l’unico gesto possibile che possiamo fare a noi stessi e agli altri: smettere di pretendere che siano felici, uguali, performative.
E concederci il diritto di attraversarle senza doverle “salvare”.
Serena Parascandolo
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