I grandi film di Natale e la moda: quanto c’entrano davvero? (Spoiler: tantissimo)

Dai cappotti disciplinati del dopoguerra alle capsule estetiche degli anni Duemila, i grandi film di Natale hanno costruito immaginari, ruoli sociali e desideri. E la moda non è mai stata solo decorazione.
Siamo nel pieno delle festività natalizie, quel limbo temporale in cui tutto sembra sospeso. Le mail restano in bozza e le decisioni slittano a gennaio. La vita reale viene messa in pausa — per scelta o per inerzia. È anche il momento in cui torniamo, quasi automaticamente, ai grandi classici natalizi, i filmoni che conosciamo scena per scena e battuta per battuta. Ed è proprio perché li conosciamo così bene che funzionano ancora. I film di Natale sono moda allo stato puro. Negli abiti, certo, ma anche nelle ambientazioni, nelle palette cromatiche, nei materiali e in tutte quelle atmosfere che finiscono per fissarsi come rituali. Cinema e moda anche a Natale si sostengono a vicenda, il primo costruisce il mondo e l’altra lo rende credibile, o quantomeno desiderabile.
Il modello nasce negli anni Quaranta con It’s a Wonderful Life, diretto da Frank Capra. Stati Uniti, 1946, pieno dopoguerra. Bedford Falls è l’America che vuole credere di essere uscita indenne dal trauma bellico. La storia di George Bailey è una favoletta morale che mostra come la comunità salva l’individuo, come il sacrificio viene premiato e come tutto il sistema regge (la magia del Natale insomma). Lo si capisce subito dagli abiti. Tutto è perfetto, talmente perfetto da sembrare finto. Le famiglie sono unite, i ruoli chiarissimi, uomini-uomini, donne-donne e bambini già educati a diventare adulti responsabili. La moda non osa, obbedisce con abiti femminili castigati ma eleganti, completi maschili strutturati e rassicuranti e cappottini per bambini che replicano quelli degli adulti. Nessuna sbavatura perché qui, vestirsi bene equivale ad aderire all’ordine sociale e soprattutto a stare dalla parte giusta della storia, anche a Natale.
In Italia, nello stesso periodo, il Natale cinematografico esiste ma racconta tutt’altro. Natale al campo, diretto da Giorgio Ferroni che restituisce un Paese ancora ferito, povero e in piena ricostruzione. Ambientato in un campo di prigionia durante le feste, mostra un Natale spoglio, essenziale, senza possibilità di concessioni alla magia. Anche le ambientazioni sono scarne, funzionali, oseremo dire quasi anti-natalizie per costrizione. E la moda può solo seguire lo stesso principio, tra cappotti consumati, vestiti ripetuti e materiali poveri. Nessuna estetizzazione, solo necessità.
Il cambio di passo arriva negli anni Ottanta. Una poltrona per due, diretto da John Landis, segna la fine del Natale buono. Boom di consumismo, anche le feste diventano lo sfondo per parlare di soldi, potere e classi sociali. Due ricchissimi fratelli della finanza scommettono sulla vita di due uomini, scambiandoli di posto. Uno è un broker, l’altro un senzatetto. Qui il Natale non redime, macchè, qui si espone. La moda fa il lavoro sporco. Completi gessati, rigidi, blindati come uniformi di potere. Gli uomini vestono per essere credibili anche mentre brindano. Viene da chiederselo: sono cresciuti così i bambini di It’s a Wonderful Life? Probabilmente sì, e ora lavorano in Borsa. Le donne incarnano l’eccesso anni Ottanta, fatto di abiti scintillanti, spalle importanti, lingerie ostentata e l’immancabile trucco marcato. Una femminilità performativa che può occupare spazio nello spazio giusto.
In Italia il meccanismo è simile, ma qui la Borsa non è finanza, è status. Vacanze di Natale, diretto da Carlo Vanzina, rende Cortina d’Ampezzo una passerella a cielo aperto. La trama è irrilevante, conta solo il contesto. Il piumino diventa un segnale di appartenenza, il maglione “giusto” un lasciapassare sociale. Gli accessori parlano prima dei personaggi. Donne, uomini, ragazzi, bambini, tutti vestono solo ed esclusivamente per essere visti. La moda insegna una regola chiave degli anni Ottanta, non basta esserci, bisogna apparire nel modo più corretto possibile.
Archiviato l’eccesso targato 80s, negli anni Novanta il Natale rientra in casa. L’eccesso lascia spazio al decoro emotivo. La moda non smette di parlare di classe, abbassa semplicemente il volume. Mamma, ho perso l’aereo, diretto da Chris Columbus, mette in scena una casa enorme, ordinata, piena. Il Natale diventa comfort, sicurezza che incornicia tutto un benessere normalizzato. I maglioni oversize di Kevin McCallister, i pigiami coordinati e i cappotti da famiglia perbene costruiscono un’estetica pensata per rassicurare, non per sorprendere, lontana da quella degli anni quaranta perché si intravedeva quella sfumatura fintamente inclusiva.
In Italia, invece, il Natale anni Novanta è una trappola. Parenti serpenti, di Mario Monicelli, mostra un interno domestico apparentemente normale lontanissimo dal villone di Mamma ho perso l’aereo. Ed è proprio questa normalità a fare paura. Una famiglia riunita per le feste, sorrisi di circostanza, sotto cui scorre una guerra silenziosa fatta di interessi e risentimenti. La moda quì è ipocrita, fatta di pellicce buone ma non nuove, orecchini importanti, abiti rispettabili, cappotti di provincia. Tutto perbene, tutto composto. Ed è proprio questo il problema, per quanto si possa nascondere dalle personalità saranno gli abiti a rivelare i personaggi.
Con gli anni Duemila cade l’ultima maschera nel paradosso di crearne una nuovissima: Il Grinch, diretto da Ron Howard, dichiara apertamente che il Natale è diventato un’estetica totale. Palette iper-sature, volumi esagerati, accessori ovunque. Whoville non è una città, è una capsule collection perfettamente coerente. Il Grinch, teoricamente anti-Natale, diventa un’icona perfettamente vendibile e anche la contro-estetica viene messa a sistema, il dado è tratto: anche il rifiuto può diventare prodotto, se impacchettato bene. Da qui in poi non esiste più un solo Natale, ma molti Natali estetici, tutti potenzialmente indossabili.
E oggi?
Oggi anche il Natale non sa più come vestirsi perchè ogni scelta estetica è una presa di posizione. La moda, che per decenni ha costruito rituali e immaginari condivisi, sembra trattenere il fiato quasi per paura di poter parlare. Il rosso è troppo scontato, la famiglia troppo normativa, la magia troppo retorica, l’eccesso troppo kitsch. Il Natale resta ovunque perché c’è ma raramente incisivo, è stato neutralizzato. Ma la neutralità, in estetica, non esiste e quindi il Natale appare stanco, non perché non ci crediamo più, ma perché non sappiamo più cosa dovrebbe tenere insieme. E quindi, la moda può ancora vestire il Natale? Forse sì, se accetta di confrontarsi con le sfumature di un’intera collettività — e se quella stessa collettività è disposta ad accettare le proprie contraddizioni. La moda può costruire un immaginario condiviso, attraversarne le tensioni, renderle visibili e persino desiderabili ma non può sostenerlo da sola, né illudersi di riformarlo. Perché il Natale, come visto negli anni è un campo simbolico che la moda può interpretare e abitare ma non reggere.
Serena Parascandolo
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