Tod’s e i terzisti. Il lato fragile del Made in Italy

Il Made in Italy del lusso si vende da sempre come l’eccellenza assoluta. Passerelle scintillanti, spot patinati, boutique dorate. Dietro i grandi marchi, infatti, c’è un esercito di laboratori esterni che non sono poi così patinati, i famosi terzisti.
Senza di loro non si cuce neanche un bottone. Sono piccole aziende che fanno il lavoro “sporco” quello di taglio, cucitura e montaggio e che hanno reso possibile, per decenni, quel miracolo chiamato “artigianato italiano”. Peccato che oggi il miracolo assomigli sempre più a una catena di montaggio pure mal lubrificata.
Uno dei tanti casi recenti èquello di Tod’s. La Procura di Milano ha chiesto di mettere l’azienda sotto amministrazione giudiziaria. Non perché Diego Della Valle cucia le borse di notte nel seminterrato, per carità. Ma perché alcuni fornitori esterni sono accusati di sfruttamento da manuale. Turni infiniti, stipendi da fame, si parla di 2,75 euro l’ora, meno di un caffè al bar e trattenute pure su vitto e alloggio. In certi laboratori si vive, si mangia e si lavora nello stesso spazio, con macchinari poco sicuri che fanno più paura di un trapano arrugginito. La solita storia insomma solo che su questa non è montato alcuno storytelling anzi, più si nasconde meglio è, c’è poco da inghirlandare.
Chiarimento doveroso: Tod’s non è indagata eh. Formalmente, ad oggi le accuse riguardano solo i terzisti. La Cassazione deve pure decidere a chi spetti la palla se Milano o Macerata. Nel frattempo, Diego Della Valle urla allo scandalo: accusa “vergognosa”, controlli rigidissimi, valori etici incrollabili.
Il problema, però, non è solo Tod’s. È un sistema intero che vive su questo equilibrio tossico.
Secondo Confindustria Moda, il 70% delle aziende del lusso italiano si affida ai terzisti, concentrati nei distretti delle Marche, della Toscana e del Veneto. Tradizione artigiana, certo, ma anche precarietà, competizione al ribasso e zone d’ombra così fitte che nemmeno il miglior spot pubblicitario potrebbe illuminarle.
E allora, il lusso diventa un paradosso: vendi sogni da migliaia di euro cuciti da mani pagate come se fossero usa e getta. Si parla tanto di sostenibilità, ma la vera domanda è: sostenibile per chi? Per gli azionisti, forse. Di certo non per chi cuce le scarpe a catena e dorme accanto alle macchine da cucire.
Il rischio è evidente, se “Made in Italy” smette di significare qualità, trasparenza e rispetto del lavoro, resterà l’ennesima etichetta vuota. Una borsa griffata che, invece di profumare di pelle pregiata, sa di ipocrisia e di sfruttamento.
Alla fine, la verità è semplice. Il lusso italiano cammina su scarpe splendide di tomaia ma con la suola bucata. E se nessuno si decide a rattopparla, il passo falso non sarà dei terzisti o dei lavoratori, ma dell’intero sistema-Paese. Perché non è solo il Made in Italy a mostrare le crepe, è l’intero racconto nazionale, quello che per anni ha venduto immagine al posto di sostanza, a franare sotto il peso della realtà.
Le vetrine luccicose non reggono più se dietro chi le allestisce ci sono stipendi da elemosina. Le etichette non bastano se coprono filiere opache. Così come le narrazioni luccicanti dal “lusso etico” alla “tradizione artigiana” stanno crollando una dopo l’altra, proprio come le favole che raccontiamo sul turismo, sulla cultura, sul lavoro.
Il Made in Italy si è sempre nutrito di simboli, qualità, autenticità, eccellenza. Ma un simbolo, quando non è sostenuto da fatti, diventa un guscio vuoto.
Se vogliamo che il marchio Italia continui a valere, non basteranno conferenze stampa indignate o comunicati pieni di buone intenzioni. Servono controlli reali, regole applicate e un rispetto autentico per chi tiene in piedi le nostre eccellenze. Altrimenti il rischio è che, da simbolo di orgoglio, il Made in Italy diventi il più costoso degli specchi per le allodole.
Serena Parascandolo
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