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Moda e Responsabilità, quando a sfilare è il Caporalato

Nel backstage del glamour scintillante e della scritta in neon Made in Italy, la passerella è lastricata di turni infiniti, paghe da fame e contratti fantasma.
Altro che “eccellenza”, qui si cuce con ago, filo e chilometri di rassegnazione.

Il sistema moda – quello che ama definirsi sostenibile, etico, trasparente – è in realtà un castello di vetro costruito sui calli di chi lavora nell’ombra.
Negli ultimi giorni un nuovo emendamento parlamentare ha riacceso il dibattito, la norma alleggerisce la responsabilità delle maison nei casi di sfruttamento lungo la filiera.
L’obiettivo, si legge nel testo, è “sostenere la competitività delle imprese”, ma intanto i sindacati temono l’effetto opposto e quindi un ulteriore passo indietro nella tutela dei lavoratori.

“Alleggerire”, in questo caso, significa rendere più difficile individuare chi risponde in caso di caporalato o subappalti irregolari.
Un paradosso in un settore che vive di immagine e reputazione, dove la trasparenza è diventata la parola d’ordine di ogni strategia di marketing.

Le maison si difendono: “Non confondete il lusso con lo sfruttamento”.
Ma la differenza, nella pratica, è sottile. Il laboratorio di provincia non ha l’ufficio stampa, eppure tiene in piedi il mito del “fatto a mano” che rende celebre il Made in Italy.
Senza quell’artigianato diffuso – spesso precario e invisibile – il Made in Italy semplicemente non starebbe in piedi.

La CGIL ha espresso una posizione netta, meno controlli significa più omertà, più subforniture opache e più sfruttamento che diventerebbe sempre più normalizzato.
“Questo emendamento – spiegano – rischia di scaricare le responsabilità sempre più in basso, lasciando i lavoratori soli di fronte alle violazioni”.
Ma in Parlamento il tema resta marginale. Troppo tecnico, troppo scomodo e troppo poco glamour per attirare attenzione mediatica.

Eppure i numeri parlano chiaro.
Secondo la Camera Nazionale della Moda Italiana, il comparto impiega circa 600 mila addetti. Le posizioni irregolari o non conformi sono stimate in circa 30 mila. Meno del 5%, ma abbastanza per raccontare una crepa sistemica.
Nel 2023 l’Italia era il primo Paese al mondo per numero di aziende del lusso nella top 100 globale: 23. Un primato che fa orgoglio, ma che dovrebbe anche imporre responsabilità.

La moda italiana è una delle grandi icone nazionali, ma anche una delle più fragili se misurata sul piano dei diritti. 

Perché non c’è estetica senza etica, e non c’è stile in una catena di montaggio senza tutele.
Finché un brand potrà dire “non lo sapevo”, il Made in Italy resterà l’ossimoro più chic d’Europa che vede un lusso lucido solo in superficie.

Serena Parascandolo

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Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
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