Primo PianoSociale

Lucia Salemme e la violenza che non si nomina

Nella notte tra il 3 e il 4 settembre, nel cuore di Forcella, un fatto scuote Napoli: Lucia Salemme, 58 anni, ha accoltellato e ucciso il marito.

Non è soltanto cronaca. Le indagini sono in corso e saranno gli inquirenti a stabilire le dinamiche, ma questo testo vuole aprire una crepa su un tema che resta troppo spesso sullo sfondo: la violenza sistemica che permea certi contesti, banalizzata o derisa nei salotti, e raramente nominata con il suo vero nome.

La storia di Lucia non è un’eccezione, è l’immagine dolorosa di tante vite spezzate da un patriarcato criminale, un sistema che accarezza e ferisce nello stesso gesto, che si maschera da amore per perpetuare violenza.

Quando l’intersezionalità diventa parola vuota

Nel film di Vittorio De Sica Matrimonio all’italiana, Sophia Loren – nei panni di Filumena Marturano – afferma: “Conosco sul’ a leggia mì, chell c’fa rirer, no chell c’fa chiagner” (“Conosco solo la legge mia, quella che fa ridere, non quella che fa piangere”).
Una battuta che nel film strappa un sorriso, ma che di fronte alla vicenda di Lucia perde ogni leggerezza. Perché qui non si tratta di cinema, ma di vita vera.

Ci sono donne che nei dibattiti e nei collettivi femministi non vengono quasi mai nominate se non da poche persone. Nei discorsi più teorici prevale spesso la corsa all’erudizione, alla citazione di testi e concetti complessi. Ma nei vicoli di Napoli, oggi trasformati in cartoline turistiche e scenografie social, quei testi non arrivano.

Emma Goldman, Bell hooks, Angela Davis sono fari preziosi, ma in certi contesti restano irraggiungibili. Non ci sono libri, strumenti e linguaggi teorici. La quotidianità di molte donne è fatta di urla in cucina, mani che invadono il letto di notte e pistole sul tavolo a ricordare chi comanda. Qui denunciare equivale a tradire, e la violenza diventa l’unica grammatica possibile, un codice di famiglia tramandato di generazione in generazione.

Il patriarcato criminale

Il patriarcato criminale è un mostro travestito da principe azzurro. Una mano accarezza, l’altra sfregia il volto. L’inganno più crudele è far credere che quel gesto sia amore vero, l’unico possibile, persino puro.

Ma non si riduce alla violenza domestica. È nel quartiere, nella strada, nella scuola che resta incompiuta, nel lavoro mai ottenuto. È un’eredità invisibile che plasma i rapporti, logora l’anima e finisce per divorare l’identità.

Intorno, troppo spesso, cosa accade? Si ride, si giudica, si volta lo sguardo altrove. I vicoli diventano merce da vendere, storie da sfruttare, scenografie da marketing. Intanto, nelle case, la violenza continua, invisibile, quotidiana, normale.

Liberarsene richiede un coraggio che spesso solo chi non ha più nulla da perdere riesce a trovare. Perché fuggire dal mostro significa rischiare la vita: essere controllate, isolate, private di soldi, amici spesso anche parenti. Significa subire botte, umiliazioni, violenze, fino a rischiare la morte.

Le streghe di ieri venivano bruciate sui roghi. Oggi bruciano le identità, nello stesso modo, ma in silenzio. E il quartiere, che a volte appare come unico rifugio, può trasformarsi nell’ennesimo accusatore, pronto a leggere il desiderio di libertà come un tradimento.

Il privilegio di poterne parlare

Questa era la vita di Lucia. E questa è la vita, ogni giorno, di tante donne che non hanno voce.
Mentre loro restano intrappolate, altrove c’è chi discute, ironizza, giudica. Così finiscono per essere condannate due volte: come traditrici nei luoghi da cui cercano di fuggire e come “inadatte” agli occhi di chi, protetto dal privilegio, osserva senza davvero comprendere.

Chi oggi scrive, legge, discute di femminismo possiede già un privilegio enorme: quello di poter nominare la violenza. In molti contesti, invece, la violenza non ha nemmeno un nome. Viene scambiata per amore. L’unico amore conosciuto, l’unico che ci si può permettere.

“Perché non ha denunciato?” – La risposta sta nella paura radicata. Avvicinarsi a una questura può significare essere fermate da motorini che chiedono conto dei propri passi. All’interno, può significare incontrare un poliziotto che ride in faccia, perché la persona non sa esprimersi, perché è appariscente nei modi, nell’abbigliamento. 

E mentre una denuncia resta chiusa in un fascicolo, a casa aspetta già il mostro, pronto a strappare vestiti e dignità, lo stesso che – con atteggiamento di sfida – accompagna persino a ricomprare quegli abiti, più costosi di prima. In quell’equilibrio distorto si arriva persino a dire “grazie”. Perché anche la gratitudine, in questi contesti, diventa un inganno.

Guardare a queste donne significa guardare in faccia la realtà più scomoda. Non basta ridere di quei contesti, giudicare modi e atteggiamenti e ridurre tutto a slogan. Servono reti concrete, vicine, accessibili. Quando si dice accessibile si intende nei concetti, negli spazi, nei linguaggi. 

Lucia, quella notte, forse ha creduto che sarebbe morta. Per questo ha tentato di liberarsi con la sola legge che conosceva: chell’c’fa rirer. Ma la sua vicenda non può restare soltanto cronaca, deve diventare un monito.

A chi vive lo stesso inferno, sentiamo di dare un messaggio chiaro: non siete sole.
Parlare – anche con un’amica, una sorella, una vicina – può essere il primo passo. Esistono numeri e centri che possono accogliere e proteggere: il 1522, gratuito e attivo 24 ore su 24, i centri antiviolenza di Napoli, Ercolano, di tutto il territorio.

Ogni donna che decidere di rompere il silenzio spezza la catena di un patriarcato che vive solo se restiamo zitte. Ma perché questo accada, l’intersezionalità deve uscire dai libri e farsi carne, voce, vicinanza, solo allora anche donne come Lucia potranno riconoscere ciò che è davvero giusto per loro e non confonderlo più con l’amore che non lo è. Perché la violenza non è amore. E quella è violenza pura, subdola.

“La vera emancipazione non inizia nelle urne, ma nell’anima della donna” –  Emma Goldman

Serena Parascandolo

Leggi Anche : Phica.eu, il patriarcato digitale che ha truffato tuttə

Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
Back to top button
Panoramica privacy

Questa Applicazione utilizza Strumenti di Tracciamento per consentire semplici interazioni e attivare funzionalità che permettono agli Utenti di accedere a determinate risorse del Servizio e semplificano la comunicazione con il Titolare del sito Web.