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L’imperatrice invisibile. Eleanor Lambert e la nascita della moda americana

Ci sono nomi che non compaiono sulle etichette, ma senza i quali la moda non sarebbe la stessa. Eleanor Lambert è uno di questi. Non fu stilista, né modella, né editrice di una rivista patinata. Fu molto di più, la donna che ha ideato la moda americana trasformandola da periferia creativa a potenza culturale globale.

Eleanor Lambert nacque il 10 agosto 1903 a Crawfordsville, Indiana, una piccola città del Midwest americano. La sua famiglia era modesta, il padre lavorava in ferrovia, la madre era casalinga. Non veniva da ambienti mondani né da dinastie culturali, ma aveva un talento precoce per l’arte e la scrittura. Studiò scultura e grafica al John Herron Art Institute di Indianapolis (oggi parte della Herron School of Art and Design), con l’ambizione di diventare artista. Si trasferì poi a Chicago, dove lavorò come giornalista freelance entrando in contatto con le prime avanguardie americane. Nel 1925, arrivò a New York, la città che sarebbe diventata il centro della sua vita. 

Lavorò come addetta stampa per musei e gallerie, collaborando con istituzioni chiave come il Museum of Modern Art (MoMA), sostenuto da Abby Aldrich Rockefeller, e il Whitney Museum of American Art. In quel contesto comprese che l’arte e la cultura in generale  non potesse vivere chiusa nelle élite, ma dovesse essere raccontata, condivisa, resa accessibile a tutti. 

La sua vita privata fu segnata da due matrimoni importanti: con il pittore surrealista Lawrence Vail, da cui ebbe un figlio, Bill Berkson, poi poeta e critico d’arte vicino alla New York School, e con Seymour Berkson, direttore del New York Journal-American, che consolidò la sua rete di rapporti nel mondo dei media.

Di lei non si conoscono gesta femministe o di attivismo reale, ma fu la sua carriera ad essere femminista nei fatti. Una donna nata nel Midwest, senza capitali, che seppe imporsi in un sistema maschile ed elitario. Portò in alto stilisti e stiliste, creò istituzioni che ancora oggi danno spazio a nuove voci.

Come ha osservato la storica della moda Valerie Steele (FIT), Lambert “femminilizzò il potere” -una frase che lascia spazio a varie interpretazioni oggi, di fatto però inventò un ruolo nuovo – quello della press agent culturale – da cui esercitare influenza senza essere musa, moglie o collezionista, ma professionista autonoma. In un’epoca in cui l’autorità femminile era sempre derivata da uomini, Lambert incarnò un modo radicalmente diverso di esercitare leadership.

Il suo lavoro aprì spazi anche a figure marginalizzate. Negli anni ’70 promosse Stephen Burrows, uno dei primi designer afroamericani a imporsi a New York. Attraverso la sua International Best Dressed List, non celebrò soltanto aristocratiche o first ladies, ma anche intellettuali, artiste e attrici fuori dai canoni esclusivi europei. Pur senza utilizzare il linguaggio di oggi, il suo approccio anticipava le pratiche intersezionali, dare visibilità a chi restava invisibile, aprire porte a chi le trovava chiuse.

La svolta arrivò nel 1943, durante la Seconda guerra mondiale. Con Parigi occupata e isolata, le maison francesi non potevano più dettare il calendario della moda. Le riviste americane come Vogue e Harper’s Bazaar si ritrovarono senza riferimenti su cui basarsi. Lambert colse l’occasione. Organizzò a New York la Press Week, una serie di sfilate dedicate esclusivamente ai designer statunitensi. Giornalisti e compratori vennero invitati a guardare non più all’Europa, ma al talento “di casa”.

Fu molto più che un ripiego temporaneo, divenne la nascita della New York Fashion Week, e con essa, dell’identità della moda americana. Nomi come Claire McCardell, con il suo sportswear democratico, Norman Norell, maestro di sobrietà elegante, o Oscar de la Renta e Bill Blass, che portarono glamour e raffinatezza, iniziarono a essere considerati al pari dei francesi.

La rivoluzione silenziosa di Lambert era compiuta, aveva trasformato un mondo periferico in nuovo centro creativo, capace di parlare con voce propria, libera e riconoscibile.

Quando morì nel 2003, a 100 anni, la stampa la ricordò come “The Empress of Seventh Avenue”. Un titolo regale, ma ancora riduttivo. Perché Lambert non fu solo imperatrice della moda americana, fu quella donna in grado di trasformare la moda in linguaggio, in cultura, in specchio della società.

Il suo lascito vive nel Council of Fashion Designers of America (CFDA), che fondò e che continua a scoprire e sostenere talenti. Nel Costume Institute del Metropolitan Museum of Art, che grazie a lei oggi espone la moda come parte integrante della storia umana. Nell’International Best Dressed List, che ha ridefinito l’idea stessa di eleganza.

Eppure oggi il mondo della moda sembra spesso distante da figure come la sua. Nel presente, dominato da algoritmi e slogan, l’attivismo viene ridotto a marketing, l’inclusione a hashtag. Molti direttori creativi si consumano come meteore, mentre Lambert aveva costruito un sistema che resisteva alle mode perché radicato nella cultura.

Lei non parlava di femminismo: lo incarnava. Non teorizzava intersezionalità: la praticava. Non sventolava bandiere, ma apriva porte. In un’epoca di slogan, la sua lezione sembra ancora più necessaria.

Eleanor Lambert non cucì mai un abito, ma cucì i fili che hanno reso la moda americana una potenza culturale globale. Se oggi New York brilla accanto a Parigi, Milano e Londra, è perché lei ebbe il coraggio di immaginare l’impossibile, di dare voce a chi non l’aveva, di credere che la moda fosse storia tanto quanto l’arte o la musica.

Ricordarla oggi non è solo un atto di memoria, ma una critica implicita al presente. Perché dietro ogni passerella, ogni sfilata, ogni icona, resta invisibile il lavoro silenzioso di chi ha trasformato la moda in cultura.

Eleanor Lambert fu la regista invisibile della moda americana, ma anche la sua coscienza, la sua narratrice, il suo cuore. Una figura che oggi manca, e di cui – forse senza ammetterlo – la moda ha ancora un disperato bisogno.

Serena Parascandolo

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Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
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