La storia di Alhagie Konte: Giustizia e Verità

Entrare in carcere in buona salute e uscirne “in fin di vita”. È la frase che sta rimbalzando tra i corridoi di Poggioreale, le piazze di Napoli e le aule delle istituzioni quando si parla di Alhagie
(Alhaige) Konte, 27 anni, originario del Gambia. È morto all’ospedale Cotugno per una tubercolosi scoperta troppo tardi.
La sequenza dei fatti
Secondo le prime ricostruzioni giornalistiche e gli atti parlamentari, Alhagie era entrato a Poggioreale in buone condizioni di salute. Durante la detenzione avrebbe iniziato a lamentare dolori, tosse, emottisi. In base a testimonianze raccolte, i compagni di cella lo avrebbero accompagnato in medicheria dopo uno svenimento.
Da lì il trasferimento prima al Cardarelli e poi al Cotugno, dove è deceduto sei giorni dopo.
Un elemento chiave è il periodo di isolamento: risulta che Konte vi sia stato posto a luglio e che, al
rientro, le condizioni siano precipitate. Su questo punto l’inchiesta dovrà chiarire se i protocolli
sanitari interni siano stati rispettati e con quali tempistiche.
Un altro dettaglio poco noto riguarda il suo status di “lavorante”, quindi ritenuto affidabile
dall’amministrazione. Il motivo preciso dell’arresto non è stato reso pubblico, ma fonti
giornalistiche riportano che i magistrati gli avessero concesso i domiciliari; una volta entrato in
carcere, però, la perdita della residenza gli avrebbe precluso la misura alternativa. Scelte e incastri
burocratici che hanno inciso in modo pesante sulla sua vita.
Ma chi è il “lavorante” in carcere?
Nel linguaggio penitenziario, il “lavorante” è un detenuto a cui vengono affidate attività interne:
distribuzione dei pasti, pulizie, piccole manutenzioni e servizi di supporto. È una posizione
considerata “privilegiata”, concessa solo a chi ha una condotta disciplinare eccellente e gode di
buona reputazione presso l’amministrazione.
Accedere a questo ruolo significa non solo poter lavorare e ricevere un piccolo compenso, ma anche
ottenere un riconoscimento di affidabilità. In altre parole, il detenuto non è percepito come
pericoloso, ma come collaborativo e integrato nella vita quotidiana della struttura.
Il fatto che Alhagie Konte fosse un lavorante sottolinea la distanza tra l’immagine di “detenuto
pericoloso”, spesso associata ai migranti, e la realtà: era una persona che il carcere stesso aveva
giudicato affidabile. Allora perché l’isolamento?
Cosa dicono le istituzioni (e cosa non sappiamo ancora)
Il caso è già arrivato in Parlamento. I senatori Ilaria Cucchi, Peppe De Cristofaro e Tino Magni
(AVS) hanno presentato un’interrogazione ai ministri Nordio e Schillaci, chiedendo conto di visite
mediche non eseguite per tempo e di un trasferimento ospedaliero avvenuto solo a quadro clinico
avanzato. «Alhagie è morto di tubercolosi, ma anche di carcere», scrive Cucchi, chiedendo di
verificare il rispetto dei protocolli e i rischi di contagio per detenuti e agenti.
Intanto il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, ha effettuato un’ispezione a
Poggioreale. Ha segnalato sovraffollamento, criticità igienico-sanitarie, atti di autolesionismo e
suicidi dall’inizio dell’anno. Ha inoltre riferito che i cinque compagni di cella di Alhagie sono
risultati negativi ai test per TBC e ha chiesto sanificazioni e screening per tutti coloro che con lui
erano entrati in contatto. «Il carcere è una bomba ad orologeria», ammonisce.
Numeri e parole che restituiscono l’immagine di un sistema in sofferenza strutturale e sempre più
alla deriva.
Napoli, migrazioni e “vite meno degne”
Qui si apre la parte che fa più male. Napoli conosce bene l’invisibilità dei lavoratori migranti: corpi
che fanno funzionare la città e scompaiono dall’inquadratura quando smettono di essere utili.
Le istituzioni totali (carcere, ospedale, CPR) non solo rinchiudono, ma producono soggettività
fragili, vite docili. E quando l’etichetta di “straniero” si somma a quella di “detenuto”, la gerarchia
implicita del valore delle vite diventa ancora più feroce. Non è retorica: è il riflesso delle
disuguaglianze reali, di come vengono distribuite risorse, cure e dignità.
Per questo movimenti, associazioni e comunità migranti hanno preso parola. Presidi, comunicati, e
una raccolta fondi per riportare il corpo in Gambia e sostenere la famiglia. Non è solo solidarietà: è
una pretesa di verità pubblica su quanto accaduto dentro lo Stato.
Perché questo non è un “caso”
La morte di Alhagie non è un incidente isolato, ma la spia di un sistema che scarica sui corpi più
vulnerabili i propri deficit: di personale, di spazi, di prevenzione, di medicina penitenziaria. È anche
un indicatore preciso che racconta di strutture senza medici, celle senza spazio, protocolli applicati
tardi o mai. Ci dice che chi è straniero, povero, marginale paga due volte: con la libertà e con la
vita.
Se la pena di morte non esiste, non possiamo accettare che di carcere o di diritti si muoia lo stesso.
Perché se in carcere si muore così, allora la pena di morte c’è già: solo che non abbiamo ancora il
coraggio di ammetterlo.
Dire Alhagie Konte non deve ridursi a un atto di memoria, ma diventare un atto di accusa.
Significa pretendere che lo Stato esca dall’opacità, che chi ha scelto l’indifferenza risponda
pubblicamente, che nessuna vita venga più lasciata spegnersi dietro un muro.
Sostenere la raccolta fondi per riportarlo in Gambia significa restituirgli il viaggio che gli è stato
negato in vita. Ma soprattutto è un gesto che riguarda noi, qui, adesso. Perché ogni volta che
accettiamo una morte di carcere come “caso isolato”, ci rendiamo complici.
Se la giustizia arriva tardi, non è giustizia: è solo un alibi elegante per seppellire l’ingiustizia.
E quel “la giustizia è uguale per tutti”, inciso nei tribunali, oggi somiglia più a una beffa che a
un principio. Va strappato dal marmo e restituito alla realtà.
Serena Parascandolo
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