Primo PianoSociale

La kefia, quel filo che intreccia storia, identità e moda

Un quadrato di stoffa a scacchi, apparentemente semplice. Così nasce la kefia – o keffiyeh – usata per secoli da contadini, pastori e viaggiatori del Medio Oriente. Nata per proteggere dal sole e dalla sabbia, piegata in diagonale e annodata intorno al capo, è stata a lungo un accessorio funzionale. Ma pochi indumenti hanno attraversato la storia trasformandosi da oggetto quotidiano a simbolo politico e culturale globale come ha fatto la kefia.

Dalle origini alle varianti regionali

Le prime tracce di copricapi simili risalgono all’età pre-islamica, con testimonianze nell’area mesopotamica. Col tempo la kefia assume volti e colori diversi. Nei Paesi del Golfo è bianca, legata all’idea di purezza e status, portata spesso insieme all’agal, un cordone nero che la fissa sul capo. In Giordania e in Arabia Saudita si trova la versione rossa e bianca, nota come shemagh, che in Giordania diventa quasi un segno di identità nazionale legato alla monarchia hashemita. Ma la più nota resta quella nera e bianca, tipica della Palestina. I motivi intrecciati non sono puramente decorativi, ma prettamente simbolici. La trama a rete richiama i campi agricoli e le reti da pesca, le linee ondulate rimandano agli ulivi, elemento centrale della terra palestinese. Una mappa visiva di un popolo e del suo legame con la propria terra.

Dal lavoro nei campi alla rivolta politica

Fino ai primi decenni del Novecento, la kefia resta soprattutto il copricapo dei contadini, mentre le élite urbane preferiscono il fez. Il suo significato cambia radicalmente con la rivolta araba del 1936–1939 contro il mandato britannico. Gli attivisti spingono la popolazione delle città ad abbandonare il fez e a indossare la kefia, trasformandola così in un simbolo collettivo di resistenza. È la prima volta che un capo rurale diventa bandiera politica, capace di unire gruppi sociali diversi sotto un unico segno. 

Negli anni Sessanta, Yasser Arafat consolida questa trasformazione. Il leader dell’OLP fa della kefia nera e bianca la sua “firma visiva”. La porta sempre, drappeggiata in modo da richiamare i contorni della Palestina storica. Diventa così un’icona internazionale, il volto di Arafat e la sua kefia diventano inseparabili, e ovunque si parli di questione palestinese il foulard diventa simbolo immediatamente riconoscibile. 

Negli anni Settanta e Ottanta la kefia supera i confini mediorientali, viene indossata in università e piazze occidentali da movimenti di solidarietà, al pari della maglietta del Che Guevara o del pugno chiuso. Non più semplice capo d’abbigliamento, ma strumento visivo di identità e resistenza.

Ai tempi la kefia cancellava le differenze tra contadini e città, tra classi popolari ed élite urbane, così come oggi accade qualcosa di simile. In manifestazioni, piazze e università la si ritrova sulle spalle di attivisti di sinistra e di movimenti studenteschi, ma anche di artisti, intellettuali e semplici cittadini mossi da ragioni diverse e convergenti. È quasi un filo invisibile che attraversa identità divergenti, creando un terreno condiviso attorno a un’unica causa. 

La globalizzazione e la sfida della produzione

Se la kefia è diventata simbolo politico, la sua storia recente racconta anche la tensione tra identità e globalizzazione. Negli anni Novanta, infatti, l’arrivo della concorrenza asiatica ha quasi cancellato la produzione locale, gran parte delle kefie vendute nel mondo proviene dalla Cina, a prezzi molto più bassi. 

Moda, appropriazione e nuove narrazioni

All’inizio degli anni Duemila la kefia entra nel linguaggio della moda occidentale. Dalle passerelle alle catene fast fashion, il pattern a scacchi conquista il mercato globale. Indossata da star della musica e del cinema, diventa un accessorio in trend che, soprattutto per le nuove generazioni, può significare più “estetica” che politica. Oggi la kefia vive di significati stratificati. In alcuni Paesi è stata vietata in scuole o istituzioni perché percepita come messaggio politico considerato divisivo, in altri è diventata un segno di solidarietà nelle manifestazioni. È allo stesso tempo un capo tradizionale, un prodotto globale, un simbolo politico e un oggetto di moda. Questa ambivalenza la rende viva e contesa perché resta un simbolo che cambia senso a seconda di chi lo indossa e del contesto in cui appare.

La kefia non è solo stoffa. Indossarla oggi può voler dire tante cose. Rivendicare appartenenza, esprimere solidarietà, o semplicemente seguire una tendenza. Il rischio, come per molti simboli diventati oggetti commerciali, è che il significato si svuoti. Indossare la kefia oggi non è mai un gesto neutro. Più che in passato, significa mettere addosso al proprio corpo una storia politica, culturale e identitaria. Eppure, proprio mentre il suo significato si fa più forte, cresce anche il rischio di vederla sbiadita, ridotta a semplice accessorio. Su Amazon se ne trovano migliaia, spesso prodotte in serie lontano dalla Palestina, pagate con un click e un account PayPal. Ma così non si acquista solo un semplice foulard, si partecipa a un processo che snatura il senso di un simbolo nato in un contesto preciso di resistenza e appartenenza. La domanda allora diventa inevitabile: ha senso indossarla senza conoscerne la storia? Non sarebbe più coerente comprarla da chi ancora la produce nei luoghi d’origine, o usarla in contesti che ne rispettino il valore? 

Oggi, come ieri la kefia non è mai stata un semplice accessorio, ma un vero e proprio frammento di memoria collettiva e un segno politico ancora vivo. Ridurla a oggetto da consumo, a pattern svenduto sulle piattaforme globali, significa di fatto prendere da un popolo il suo simbolo più forte e restituirlo svuotato, reso merce di consumo per uno sfizio occidentale. Indossarla e acquistarla in un contesto coerente significa riconoscerne realmente il peso che la tiene viva sia come memoria, come identità e come corpo politico, non è necessario comprarla oggi, con un click distratto, è domani, nelle mani delle comunità che ancora la tessono, che la kefia può ritrovare coerenza e rispetto che merita. 

Serena Parascandolo

Leggi Anche: I brand africani che stanno ridefinendo la moda globale oltre i confini

Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
Back to top button
Panoramica privacy

Questa Applicazione utilizza Strumenti di Tracciamento per consentire semplici interazioni e attivare funzionalità che permettono agli Utenti di accedere a determinate risorse del Servizio e semplificano la comunicazione con il Titolare del sito Web.