Dalla protesta alla repressione: la solidarietà diventa reato, mentre chi finanzia la guerra resta intoccabile

Intervista a Raffaella Cirillo e Nives Monda del BDS sulla contestazione pacifica a Teva a Napoli
Sabato 25 ottobre, alla Mostra d’Oltremare di Napoli, durante la fiera PharmExpo, un gruppo di attivistə ha contestato pacificamente la presenza della multinazionale farmaceutica israeliana Teva, accusata di complicità nell’apartheid sanitario imposto ai territori palestinesi. Dopo un presidio all’esterno e un flash mob all’interno dei padiglioni, la polizia è intervenuta arrestando tre manifestanti.
Oggi, nell’udienza di convalida, il tribunale ha disposto la scarcerazione: è caduta l’imputazione più grave e la misura è stata ridimensionata all’obbligo di firma tre volte a settimana. Una vicenda che i collettivi definiscono «una rappresaglia contro un’azione pacifica» e che ha già portato all’annuncio di nuove mobilitazioni in città.
Di questo, e del senso più profondo di quella protesta, abbiamo parlato con Raffaella Cirillo e Nives Monda, presenti sabato alla Mostra.
S.: Prima di entrare nei fatti, ci raccontate cosa vi ha spinte a essere lì sabato?
R.: Beh, per prima cosa, posso dirti “come fare a non esserci”. Abbiamo visto in diretta il genocidio del popolo palestinese di Gaza, abbiamo assistito alla complicità del nostro Governo… continuiamo a vedere abusi e violenze in Cisgiordania… gli aiuti umanitari entrano con il contagocce… e oggi ci parlano di ricostruzione come se fossimo davanti a una catastrofe naturale, vogliono farci passare per “pace” una tregua fragile e temporanea. Come si fa a non esserci?
N.: Non bisogna normalizzare, chiamandola “pace”, una tregua finta, durante la quale le persone civili continuano a essere uccise e le case distrutte.
S.: Che emozioni avevate prima di iniziare l’azione?
R.: Emozioni contrastanti: indignazione profonda innanzitutto. Da mesi scendiamo in strada, scioperiamo rinunciando a giornate di salario (e sappiamo quanto siano bassi i nostri redditi), chiediamo di interrompere ogni accordo, ogni collaborazione con il Governo israeliano… e puntualmente veniamo derisə, se non addirittura ignoratə. E poi c’è questo dolore che ti porti dentro, questa frustrazione…
S.:E poi?
R.: Molto semplicemente: da oltre un mese chiediamo al Comune di Napoli e alle altre istituzioni pubbliche di non permettere all’azienda israeliana TEVA di partecipare al PharmExpo. A luglio il Consiglio Comunale aveva approvato una mozione che impegnava il Comune a interrompere ogni rapporto con le aziende complici nel genocidio. Solo lunedì 20 ottobre siamo statə a consegnare una lettera al Sindaco in cui chiedevamo di rispettare quella mozione. Un assordante silenzio. Abbiamo allora deciso di contestare la presenza di TEVA con i nostri corpi e le nostre voci.
S.: Cosa è accaduto, passo dopo passo, da quando siete arrivati alla Mostra d’Oltremare fino al presidio davanti allo stand di Teva?
R.: Dunque, il presidio è stato organizzato da diverse realtà cittadine: la Rete Napoli per la Palestina, il Centro culturale Handala Ali, il nodo locale del BDS (di cui facciamo parte), Sanitari per Gaza, Si Cobas, il laboratorio politico Iskra, ma c’erano lavoratrici e lavoratori, studentə, personale sanitario, anche pensionatə. È importante dirlo, perché bisogna smetterla di far passare chi protesta come i soliti facinorosi “ProPal” o, come dice il Ministro Tajani, “figli di papà”.
Siamə statə lì, all’ingresso di Viale Kennedy, più o meno dalle 11.00 fino alle 13.00: qualche intervento, volantinaggio, slogan, striscioni. Più volte si è cercata una mediazione per entrare in delegazione, ma nonostante avessimo avuto anche il placet del Direttore della Mostra, niente. Dopo diversi rinvii, non ci è stato dato il permesso.
Verso le 12.30 un gruppo di Sanitari per Gaza, da Napoli e dal Veneto, che si erano registratə alla fiera ed erano quindi entratə regolarmente, si è recatə allo stand di TEVA e ha letto una lettera di denuncia rivolta all’azienda. Noi abbiamo rilanciato da fuori. Poco dopo sono uscitə, hanno letto di nuovo la lettera – un momento molto emozionante – dopodiché abbiamo deciso di sciogliere il presidio.
A piccoli gruppi siamo poi entratə alla Mostra dal lato di Via Marconi, pagando il biglietto di ingresso, e ci siamo avviatə verso il padiglione in cui c’era lo stand TEVA. I padiglioni erano transennati, ma gli ingressi no, così alcunə si sono diretti verso una porta, altrə sono entratə da un altro ingresso. Una volta dentro, abbiamo inscenato un flash mob.
S.:Che atmosfera c’era in quel momento? Come hanno reagito le persone presenti, i medici, i farmacisti, i visitatori?
R.: Gli agenti erano tesi (hanno persino tirato calci sotto agli striscioni). Intorno, invece, le persone erano tranquille. In parecchie ci hanno sostenuto, hanno applaudito. Abbiamo incrociato diverse famiglie con bambinɜ lungo il percorso verso l’uscita (c’era anche una festicciola fuori al bar della Mostra), ci hanno applaudito e sorridevano, chiaro sintomo della solidarietà della popolazione.
S.: Perché proprio Teva? Qual è, per voi, il nodo centrale della responsabilità di questa azienda?
N.: Teva è un colosso farmaceutico che più volte ha dimostrato di non attenersi ad alcuna regola di controllo sulla produzione dei farmaci né sul divieto di fare cartello per imporre i propri prodotti al mercato. Da alcune ricerche condotte da Stampa indipendente e riportate sul sito di BDS Italia, si evidenzia che TEVA non solo effettua operazioni scorrette per la vendita, ma soprattutto viola le regole sulle sperimentazioni. Di recente è stato rilevato che:
“Rapporti inquietanti suggeriscono che il Ministero della Salute israeliano avrebbe permesso a grandi aziende farmaceutiche nazionali di testare prodotti sui prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Questa affermazione, fatta dalla professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian e da Mohammad Baraka, capo dell’Alto Comitato di Follow-up per gli Arabi in Israele, solleva serie preoccupazioni etiche. Nel 1997, l’ex politica israeliana Dalia Itzik riferì che oltre 5.000 test erano stati eseguiti su questi prigionieri. Inoltre, storicamente le autorità israeliane restituiscono sempre con grande ritardo i corpi dei prigionieri deceduti e questo alimenterebbe i sospetti di sperimentazioni mediche.” Fonte: BDS
TEVA dimostra di essere coinvolta direttamente nella distruzione di Gaza, sia attraverso forniture sia con campagne di immagine a sostegno dell’esercito israeliano; il suo profilo etico – per quanto provino a raccontare diversamente anche sui loro siti, è ampiamente compromesso dalle sanzioni dell’Unione Europea, che nell’ottobre del 2024 l’ha multata per 462 milioni di euro per concorrenza sleale e abuso di posizione dominante.
Però è bene precisare: il boicottaggio combatte la complicità, non l’appartenenza. Può sembrare una precisazione banale, ma meglio sempre non dare spazio ad equivoci.
S.: Dalle testimonianze sembra che sia stato tutto molto pacifico: striscioni, cori, volantini. Raffaella, confermi? Come avete vissuto l’arrivo della polizia?
R.: Sì, confermo: un flash mob, un paio di striscioni, qualche slogan e in massimo 15 minuti siamo uscitə. Nulla faceva presagire quello che sarebbe accaduto, sembrava davvero tutto tranquillo e invece, arrivatə in prossimità di Via Marconi, ci siamo ritrovatə i cancelli sbarrati da agenti in assetto antisommossa.
S.: E quando la celere si è schierata? Cosa avete provato vedendo che una manifestazione pacifica veniva trattata come se fosse un pericolo?
R.: In realtà non era come nei cortei, quando ti sbarrano la strada: erano un po’ sparpagliati, ma ci siamo subito allarmatə comprendendo che qualcosa non andava. C’era anche la Guardia di Finanza. Poi la Digos ha iniziato con un’intimidazione assurda: ci hanno detto di “consegnare due persone” in cambio della possibilità di uscire. Ovviamente abbiamo rifiutato, chiedendo spiegazioni, ma nulla.
A un certo punto un uomo, un agente in borghese probabilmente, con un atteggiamento davvero atipico, si è lanciato sullo striscione “No TEVA”, lo ha strappato urlando insulti di ogni tipo. Da lì è esploso il caos: siamo statə accerchiatə e spintonatə, qualcunə è cadutə, sono partite manganellate alle gambe, strattonamenti e nel parapiglia hanno trascinato via Dario e Francesco.
È stato assurdo, terribile. Eravamo incredulə: noi eravamo lì a denunciare un’azienda che, come ricordava Nives, è accusata di sperimentare farmaci su prigionierə palestinesi e di essere complice nella distruzione di Gaza, e ci siamo ritrovatə trattatə come criminali.
Poi ci hanno identificatə uno per volta, davanti a un’auto con una telecamera puntata addosso: ci riprendevano da capo a piedi, zoom sul volto, sul documento, personalmente, una cosa mai vista. E ci hanno imposto di andar via a turni, uno alla volta, da uscite diverse. Sale la rabbia e la frustrazione perché eravamo lì facendo un atto di denuncia civile e totalmente pacifico.
S.: Tre dei vostri compagni – Mimì, Dario e Francesco – sono stati arrestati. Che effetto ha avuto su di voi? E che significato politico gli attribuite?
R.: Siamo ovviamente sconvoltə. Mimì l’hanno portatə via quando ormai erano rimastə in tre o quattro all’interno. La situazione ha davvero del paradossale: le forze dell’ordine, erano armate, con scudi e caschi, eppure la violenza è stata attribuita a noi! Ma le immagini che abbiamo raccolto parlano chiaro. Tant’è che, nell’udienza di convalida, è stata esclusa sia la versione della Questura che parlava di un presunto lancio di transenna, sia l’imputazione di lesioni ai danni di un loro funzionario.
È chiaro: il messaggio è che la Palestina deve sparire dalle piazze, che le persone devono smettere di manifestare. Finora a Napoli le mobilitazioni si erano svolte in un clima di relativa “tolleranza”, ma è evidente che a un certo punto – molto probabilmente da Roma – è arrivata la decisione di fermarci. Con la ridicola copertura che ormai ci sarebbe “la pace”!
Dal cessate il fuoco sono statə uccisə altrə 500 cittadinə di Gaza. Si è deciso che dobbiamo tacere, tornare nelle nostre case, e che cali l’oblio sulla sorte della Palestina. Intanto la popolazione continua a subire abusi, la fame è ovunque, i casi di malnutrizione hanno raggiunto un livello talmente grave che chi riuscirà a sopravvivere – e parliamo in gran parte di bambini – si rischiano ormai conseguenze irreversibili.
S.: Questa intervista deve servire anche a parlare a chi legge e far comprendere bene il tema. Nello specifico: cosa volete dire a chi legge e magari non conosce bene il tema? Perché questa battaglia non riguarda “solo” la Palestina ma ci tocca tuttə?
N.: Il colonialismo occidentale è al centro di questa vicenda: in Palestina il sionismo agisce con il colonialismo di insediamento, poiché il focus centrale dell’usurpazione è la terra. In altre epoche, gli Stati europei, come nella tratta atlantica, si sono concentrati sull’estrazione di manodopera e risorse naturali. Ma lo snodo è lo stesso: popoli “bianchi” si arrogano diritti di supremazia su popolazioni indigene. La base filosofica e politica del sionismo non ha a che vedere con aspetti religiosi, o almeno, non è totalmente basata su di essi. Questi elementi vengono sventolati come motivazione affinché sia intoccabile il diritto dei sionisti a prendere la terra di dio e dei padri. Ma la verità è che a Gaza e in Cisgiordania si gioca una vicenda geo-politica.
S.: Se doveste riassumere in una frase cosa chiedete oggi a Napoli, alle istituzioni, alle persone comuni, quale sarebbe?
N.: È tutto scritto nella lettera consegnata il 20 ottobre al Sindaco, come elenco delle azioni che si devono fare per attuare la mozione del 2 luglio votata dal Consiglio. Ma una parola potrebbe essere: vogliamo giustizia!
R.: … e non di fare l’errore di distogliere gli occhi dalla Palestina.
S.: Qual è la tua speranza oggi, nonostante gli arresti e la repressione?
R.: Innanzitutto, la buona notizia è che Mimì, Dario e Francesco sono statə scarceratə, anche se con l’obbligo di firma ogni tre giorni. È evidente quindi che questa scandalosa repressione non si ferma.
La speranza è che le prossime mobilitazioni – a partire da quella di venerdì 31 ottobre alle 17.30 in piazza del Gesù a Napoli – siano sempre più partecipate. Chi governa deve capire che la Palestina ci riguarda, e come cittadinə abbiamo il dovere di continuare a denunciare la sistematica violazione dei diritti umani e del diritto internazionale in corso.
I governi occidentali, Italia inclusa, vogliono solo fare affari sul sangue delle persone palestinesi: pensano a posizionarsi meglio nell’area, ad aumentare i profitti di aziende come Leonardo o ENI. Questo significa perpetuare la colonizzazione e rafforzare l’apartheid.
Come ha scritto il prof. Luigi Daniele, siamo in “un film dell’orrore che minaccia proprio tuttə”: un genocidio i cui responsabili assumono e redistribuiscono forza costituente invece di essere destituiti. E allora, visto che nessunə di noi un domani potrà dire di “non sapere”, se non si vuole essere complici bisogna agire.
Certo, i social hanno un ruolo importante nell’esprimere il dissenso, ma sono i corpi nelle piazze che fanno la differenza. Ogni voce può fare la differenza. Sappiamo bene che con i loro algoritmi possono oscurarci, i loro troll spostano l’attenzione, confondono. Invece più saremo in piazza, più moltiplicheremo iniziative e forze, più metteremo in crisi la narrazione dominante di chi vuole far credere che ormai sia tutto finito, risolto. Perché, sempre per citare Daniele, “siamo, almeno da questo punto di vista, effettivamente oltre l’Olocausto”.
Un grazie sentito a Nives Monda e Raffaella Cirillo per aver dato voce, con lucidità e coraggio, a quanto accaduto.
La scarcerazione di Mimì, Dario e Francesco ci solleva, ma non ci rassicura. Resta l’amaro in bocca per una repressione che ha trasformato un flash mob pacifico, guidato anche da personale sanitario, in un teatro di arresti e intimidazioni.
Questa vicenda deve risvegliare la coscienza di tuttə: com’è possibile che a chi denuncia un colosso farmaceutico complice di crimini internazionali venga riservato lo stesso trattamento dei criminali? Perché la protesta civile, nonviolenta, diventa terreno di manganelli e tribunali?
Non possiamo accettare che la verità venga capovolta, né che la solidarietà verso la Palestina venga criminalizzata. È il momento di guardare in faccia le contraddizioni, di comprendere davvero come e perché si è arrivati a tanto.
Sta a noi non abbassare lo sguardo: la coscienza collettiva è l’unica forza che può spezzare il silenzio.
Serena Parascandolo
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