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San Gennaro, il sangue che ribolle tra fede, pop e resistenza

San Gennaro, vescovo di Benevento, visse tra il III e il IV secolo.

Secondo la tradizione venne decapitato nel 305 d.C. durante le persecuzioni di Diocleziano.

È ricordato come martire della fede, ma anche come figura che nei secoli ha incarnato protezione e speranza per Napoli e per il Sud intero. Il suo sangue, raccolto da una donna devota e conservato in due ampolle, è al centro del rito che ancora oggi si ripete tre volte l’anno: la liquefazione, il cosiddetto “miracolo”.

Napoli e il Sud del III secolo erano una terra in fermento. L’Impero romano, già stanco e lacerato, vedeva crescere nelle sue pieghe un nuovo movimento. I cristiani, perseguitati ma sempre più numerosi. In questo contesto nacque Gennaro, intorno al 272 d.C., probabilmente a Napoli o nei pressi di Benevento. Giovane, colto, di buona famiglia, ma soprattutto creduto e seguito.

Divenne vescovo di Benevento, guida e riferimento per comunità che vivevano nell’ombra della repressione. Nel 305 d.C., durante le persecuzioni ordinate da Diocleziano, si recò a Pozzuoli per visitare alcuni fedeli incarcerati. Fu arrestato e portato davanti al giudice Timoteo.
Le cronache raccontano che, nonostante torture e pressioni, non rinnegò mai la sua fede. Persino i leoni dell’anfiteatro rifiutarono di sbranarlo, quasi riconoscendo una forza che veniva da altrove.

Alla fine, la condanna più crudele: la decapitazione. Nei pressi della Solfatara, terra di zolfo e fuoco, la sua testa cadde a terra. Il sangue sgorgò, e una donna – chiamata Eusebia nelle fonti popolari – lo raccolse in due ampolle. Non fu solo pietà ma l’inizio di una memoria che diventò rito, fede, identità collettiva.

Da quel giorno San Gennaro smise di essere solo un martire, divenne il simbolo di Napoli. Protettore invocato contro la peste, il Vesuvio, i terremoti, la fame. Sempre lui, sempre il suo sangue.
La liquefazione non è solo rito religioso rappresenta è il nostro respiro. Quando il sangue si scioglie, Napoli respira. Quando resta fermo, cala il gelo, quel silenzio diventa presagio. A Napoli, fede e superstizione, religione e vita quotidiana non hanno mai avuto confini.

San Gennaro è cultura del popolo

San Gennaro non è un semplice santo chiuso in sacrestia. A Napoli lo incontri per strada, in un basso, in una candela accesa, in un murales con aureola al neon. Lo incontri nei nomi dei bambini, nelle invocazioni dei vicoli: «San Gennà, aiutame tu» San Gennaro non si sente solo il 19 settembre.

La street art l’ha reso linguaggio universale: Jorit l’ha dipinto con i suoi segni rossi, altri artisti l’hanno trasformato in rapper di quartiere o in icona fluorescente che illumina le notti. È ovunque, nelle statuette vendute a Spaccanapoli, nelle maschere di teatro, nelle canzoni neomelodiche e persino nei dj set. Citato da Eduardo, Massimo Troisi, evocato da Totò, portato in scena in mille forme. Ogni reinterpretazione dice la stessa cosa: San Gennaro non appartiene solo alla Chiesa, appartiene soprattutto al popolo.

Dietro la leggerezza pop resta però il significato profondo, quello che San Gennaro è il simbolo di una città che non si arrende. Napoli che ride e piange nello stesso respiro, che prega e bestemmia nella stessa frase, che porta la fede fuori dalla cattedrale per trasformarla in cultura e identità con resistenza. 

San Gennaro oggi è denuncia che viene dal basso

Oggi non lo vogliamo imbalsamato in un’ampolla. Lo vogliamo vivo, con il sangue che ribolle accanto a noi. Non un santo che consola: un santo che accusa.

Come cantava Federico Salvatore: «…perché solamente loro sono i veri camorristi, a cui Napoli da sempre ha pagato la tangente… e qualcuno l’ha incassata con il sangue della gente».

Quelle parole oggi bruciano più che mai. Perché Napoli conosce bene i politici che comprano consenso e le borghesie che la pregano in Duomo per poi svenderla fuori, ridendole in faccia. Conosce i palazzinari che la fanno crescere solo in verticale e i broker che la speculano pezzo dopo pezzo, come se fosse una merce e non una città viva.

Ma San Gennaro oggi non dovrebbe fermarsi qui. Dovrebbe gridare anche contro chi colonizza terre e corpi, perché il sangue che scorre a Gaza è lo stesso che ribolle nelle nostre vene. Dovrebbe farsi presente nelle scuole, dove il bullismo annienta chi è fragile, e dentro le case, dove il patriarcato criminale si traveste da normalità e diventa violenza quotidiana. Un San Gennaro che non resta in silenzio davanti alla guerra, che non benedice chi bombarda, che non abbassa lo sguardo davanti a chi abusa del potere viscido travestito da diplomazia. 

Allora sì, quel sangue che ribolle non è un miracolo calato dall’alto, è il nostro. È la fatica che portiamo sulle spalle da generazioni, ed è la forza che ancora oggi ci fa resistere. Scorre ogni volta che alziamo la testa, che spezziamo il silenzio, che chiamiamo le cose col loro nome.

E allora, lasciamo le parole di Federico Salvatore come augurio nel giorno di San Gennaro, parole che oggi suonano come epitaffio e profezia:

«Sembra un gioco di parole ma mi sento più sicuro 

coi progetti del passato e i ricordi del futuro…
E alla fine del mio viaggio chiedo a Napoli perdono, 

se ho cercato con coraggio di restare come sono.»

Federico Salvatore

Serena Parascandolo

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Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
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