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NYFW 2025 – Due Americhe che sfilano

Tra i big che scelgono il rifugio della nostalgia e gli emergenti che riportano la moda nella realtà

La New York Fashion Week di settembre 2025 si è chiusa tra applausi e scintillii, ma con un retrogusto amaro.

È stata una settimana di passerelle rivolte indietro a un’America fatta di paillettes e lustrini, quasi a voler sfuggire alla realtà evocando un passato ormai inesistente e trasformandolo in scenografia troppo patinata.

Una sorta di illusione ottica, un ritorno agli anni Settanta e Ottanta che Christian Siriano ha interpretato con il glamour del cinema, Sergio Hudson con la potenza dei tailleur maschili riadattati al femminile e Michael Kors con una “vagabonda chic” che sogna viaggi lontani. La grande attesa era invece tutta per il ritorno di Calvin Klein, assente da anni dalle passerelle newyorkesi con la nuova direzione creativa di Veronica Leoni, il debutto ha scelto la via del “sensual minimalism” abiti puliti, slip dresses, trasparenze leggere e un uso calibrato dei codici storici del brand. Non urla, non ostenta, semplicemente riafferma la sua presenza.

Non c’è dunque da meravigliarsi se, come scrive Michele Ciavarella, la moda appare come qualcosa che “cambia senza cambiare” – aggiorna la superficie, ma resta saldamente ancorata a un’idea di lusso rassicurante che preferisce non disturbare.

Eppure, dietro questa estetica scintillante si nasconde una contraddizione evidente. Allora come oggi, la nostalgia di un’America dorata convive con una realtà cupa. Negli anni di Ronald Reagan il lusso scintillava mentre l’epidemia di AIDS avanzava e veniva colpevolmente taciuta: il presidente decise di non parlarne pubblicamente fino al 1985. Oggi, mentre la moda accende riflettori sul passato, fuori dalle sale degli show gli Stati Uniti affrontano una realtà segnata da tensioni profonde. L’omicidio di Charlie Kirk, attivista conservatore colpito mentre parlava in un campus, ha riportato in superficie un clima da guerra civile strisciante che era già nell’aria. A questo si sommano l’incertezza economica legata ai dazi protezionisti voluti da Trump, che hanno messo in difficoltà l’intera filiera dell’abbigliamento, e un contesto globale attraversato da conflitti che accentuano instabilità e paure. È questo lo sfondo su cui si muove la moda americana, un Paese che scricchiola sotto i colpi della violenza politica e delle fratture economiche, mentre in passerella si preferisce rievocare i fasti di un passato rassicurante.

Per chi ha seguito la settimana, è apparso chiaro che i grandi marchi americani abbiano preferito il conforto della nostalgia a un confronto diretto con il presente. Collezioni belle, curate, certo. Ma in definitiva rassicuranti, poco inclini a disturbare. A questo si aggiunge la frammentazione del calendario, dove colossi come Ralph Lauren e Marc Jacobs hanno preferito sfilare fuori dall’agenda ufficiale, ribadendo la distanza che separa i big dagli altri. E mentre i costi per organizzare una sfilata possono arrivare a un milione di dollari, molti giovani designer restano esclusi. Non stupisce allora che parte della critica abbia parlato della NYFW “più noiosa da anni”, dominata da un lusso discreto e uniforme che smussa le differenze e cancella la vitalità urbana che da sempre caratterizza New York.

In fondo, sembra di assistere a una scena da film americano, mentre fuori il mondo è nel caos, i salotti dei ricchi restano chiusi, ovattati. Si continua a sorseggiare tè, con i cucchiaini che tintinnano appena, mentre da lontano arrivano i rumori di una catastrofe. Un tremolio nelle tazze, nulla di più. E di solito, in questi film, il passaggio alla catastrofe più grande arriva in men che non si dica. 

Come diceva Bukowski: «Ben venga il caos, perché l’ordine non ha funzionato».

…Nella stessa città e negli stessi giorni, c’è chi ha scelto di fare l’opposto. Colm Dillane (KidSuper) ha trasformato la Borough Hall di Brooklyn – edificio storico e palazzo civico, simbolo di autorità politica e comunitaria  in una passerella pubblica per cinque giovani stilisti selezionati tramite call aperta. Con l’evento The People’s Runway, la moda è scesa in strada, si è mescolata con la città e con un pubblico ampio. Un gesto politico prima ancora che estetico, una redistribuzione di visibilità in un settore che troppo spesso resta elitario, un gesto che è stato capace persino di sovvertire regole di calendario, frammentazione e costi proibitivi.

Sul fronte del corpo come messaggio, l’apparizione di Vivian Wilson, figlia di Elon Musk e attivista trans, nello show del designer Alexis Bittar ha ribaltato l’immaginario delle reginette di bellezza americane. In passerella, il format di “Miss USA” è diventato una performance critica, in cui fasce, simboli patriottici e pose da concorso non celebravano più un ideale stereotipato, ma affermavano diritti, visibilità e autodeterminazione delle persone trans.

Sul versante più sartoriale, ASHLYN (Ashlynn Park) ha presentato abiti dallo stile rigoroso e al tempo stesso romantico, costruiti con grande attenzione alla riduzione degli sprechi e alla cura artigianale. La sua è una radicalità silenziosa: niente slogan gridati, ma la scelta di riportare l’innovazione alla concretezza del “come si fa” un abito, al processo e alla qualità più che all’effetto di immagine.

Tanner Fletcher ha invece abbattuto i confini tra moda e vita quotidiana. In collaborazione con Etsy e i suoi artigiani indipendenti, ha trasformato elementi domestici come paralumi, tessuti d’arredo, oggetti di casa in abiti e accessori da passerella. Un gesto creativo e ironico che mescola guardaroba e arredamento, spostando la moda fuori dal suo territorio abituale e dimostrando che l’innovazione può nascere dove meno ce lo si aspetta, anche in casa. 

Un altro momento dirompente è stato lo show di AnaOno, brand specializzato in lingerie e abbigliamento per donne che hanno affrontato il cancro al seno. In passerella non modelle convenzionali, ma sopravvissute che hanno mostrato senza filtri i segni della malattia: cicatrici, mastectomie, corpi trasformati. È stato un atto di rottura con l’ideale di perfezione patinata che domina l’industria e insieme un gesto politico di bellezza, capace di ridefinire cosa significhi oggi forza, femminilità e rappresentazione. La moda, per una volta, non ha nascosto la vulnerabilità ma l’ha portata al centro della scena.

Se si vuole capire dove respira davvero il nuovo a New York, bisogna guardare qui. È la contro-narrazione di questa settimana. Mentre i grandi perfezionano l’arte della dissociazione elegante, i nuovi protagonisti riportano la moda dentro il presente, costruendo inclusione e facendo sentire il pubblico accolto in una realtà concreta, non in un’illusione idilliaca.

Ancora una volta, New York si rivela specchio di verità. La crepa è ormai evidente: il lusso rassicurante a cui l’immaginario occidentale ci ha abituato per decenni fa acqua da tutte le parti. Il mondo è in subbuglio e vedere figure che sfilano a passo lento, avvolte in colori neutri e rassicuranti, appare sempre più distante dal presente.

La moda è sogno, certo. Ma un sogno che si discosta troppo dalla realtà rischia di diventare illusione che scivola nella delusione. 

I grandi marchi devono fare i conti con la doppia pressione di creatività e numeri, soprattutto in un contesto geopolitico ed economico incerto. Ma proprio per questo, oggi più che mai, la moda deve prendere posizione.

Non sorprende allora che i brand emergenti – spesso guidati da voci della Generazione Z e dei Millennials – scelgano meno numeri e più azioni, meno marketing e più gesti politici, sociali, identitari. È questa la vera scossa che attraversa New York: non l’ennesima collezione patinata, ma la prova che anche la moda può essere un atto di realtà.

E allora la domanda rimane aperta: siamo davanti a uno scenario di capitalismo ormai traballante? Forse sì. E se è così, non è escluso che proprio dalle passerelle possano arrivare i primi segnali di un cambiamento inevitabile.

Serena Parascandolo

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Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
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