Misandria e Misoginia non sono sinonimi

Un viaggio tra linguaggio, cultura e femminismi per distinguere l’apparenza dalla sostanza.
“Se odiamo gli uomini è misandria, quindi è uguale alla misoginia?”
No, non sono la stessa cosa ma perché?
È una domanda che circola spesso nei dibattiti, soprattutto quando il femminismo viene accusato di essere il rovescio del patriarcato. Ma dietro questa apparente equivalenza si nasconde un fraintendimento profondo. Misandria e misoginia non sono sinonimi, perché non nascono dallo stesso terreno e non hanno lo stesso impatto. La prima indica un atteggiamento preventivo, non-sistemico nè sistematico, seppur ormai sdoganato dall’impatto retorico e dalla depauperazione del concetto stesso. Le suffragette erano considerate misandriche.
La seconda è invece un sistema culturale e sociale radicato da secoli, capace di modellare istituzioni, linguaggi, relazioni e persino il nostro modo di pensare.
Mettere queste due parole sullo stesso piano non è solo impreciso, significa ignorare la differenza tra un fenomeno sporadico e un meccanismo di dominio che attraversa la storia.
Definizione e differenze
La misoginia è l’odio, il disprezzo e la svalutazione delle donne. Non è un semplice sentimento immotivato, ma un sistema che attraversa secoli di storia e che ancora oggi condiziona relazioni sociali, leggi, istituzioni, linguaggi. È il meccanismo invisibile che stabilisce chi ha diritto alla parola e chi deve restare in silenzio, chi può ambire a posizioni di potere e chi deve accontentarsi di spazi marginali perché collocati nel ruolo prestabilito.
La misandria, invece, è l’atteggiamento di disprezzo verso gli uomini. Non ha mai avuto né la forza né la struttura per trasformarsi in un sistema di oppressione. Esiste come reazione, come provocazione, come linguaggio esasperato, ma non ha costruito gerarchie né plasmato società. Confondere i due concetti significa ignorare una sproporzione evidente. Da un lato un ordine che attraversa la cultura globale, dall’altro un fenomeno circoscritto, spesso usato come argomento per screditare il femminismo.
Ecco il punto cardine: non c’è simmetria.
Il peso del sistema
La misoginia ha radici profonde nella filosofia, nella religione, nel diritto, nella letteratura. Ha codificato ruoli e gerarchie, stabilendo chi avesse diritto al potere e chi dovesse restare subordinato. Ancora oggi si traduce in discriminazioni sul lavoro, nella sottorappresentazione politica, fino a raggiungere l’apice con violenza e femminicidi. Non è una questione di opinioni, ma di un assetto storico che ha reso l’inferiorità femminile una norma accettata.
Spesso, in contesti femministi, il ruolo della strega è stato usato in modo anche ironico, le streghe rappresentano quasi l’origine stessa di questo radicamento misogino. Pensiamo al Malleus Maleficarum, manuale pubblicato nel 1486 che per secoli ha guidato la persecuzione delle donne considerate “streghe”. Non un semplice libricino, ma un vero manuale d’odio con tanto di istruzioni dettagliate su come torturare, interrogare, condannare ed eliminare chi non rientrava nei confini del potere patriarcale.
Un menù dell’orrore: piangi troppo? Strega. Sei intelligente, intuisci segreti? Strega. Sei imperfetta e corrotta perché il tuo corpo sanguina ogni mese? Strega. Questo testo veniva letto e applicato da mariti, preti, giudici quindi uomini che decidevano della vita altrui seguendo un preciso copione.
Oggi non bruciamo più sui roghi, ma il meccanismo non è poi così diverso. Se una donna denuncia violenza, le si chiede: “Quanto avevi bevuto?” (Strega). Se una manager è troppo esigente viene giudicata “difficile”, ecco l’etichetta (Strega) e quanti esempi si potrebbero fare..
Il Malleus è ancora qui, frammentato nei titoli di giornale, negli sguardi, nei silenzi. La parola “strega” è la condanna riservata a chi non si piega ai ruoli stabiliti.
La misandria, al contrario, non ha mai avuto questa forza sistemica. Non ha scritto leggi, non ha costruito religioni o codici morali che relegassero gli uomini a un ruolo subalterno. Nessun uomo viene chiamato “stregone” come insulto; e se lo è, nella nostra immaginazione è il Mago Merlino di turno, potente, rispettato, con la bacchetta che sistema tutto. Non certo il rogo.
Non esistono lavori sottopagati per il solo fatto di essere “fatti da uomini”, possono essere sottopagati ma non per il loro genere. Nessun uomo, vittima di violenza, si sente chiedere “come eri vestito”. La misandria è evocata più spesso come uno stratagemma retorico per ribaltare il discorso che come realtà vissuta. E allora la domanda resta: davvero si può parlare di simmetria tra un fenomeno isolato e una struttura millenaria che ancora produce disuguaglianze?
Il mosaico delle oppressioni
Ecco la verità scomoda: non è questione di odio, ma di potere. La misoginia è sopravvissuta perché ha saputo intrecciarsi con altri sistemi di dominio – razzismo, classismo, eteronormatività. È un mosaico di oppressioni che si rafforzano a vicenda, modellando la vita delle donne in base al colore della pelle, all’origine sociale, all’identità di genere o all’orientamento sessuale.
Angela Davis lo ha mostrato chiaramente: una donna nera non subiva solo sessismo, ma anche razzismo e sfruttamento economico. Non due catene parallele, ma un unico nodo. Michela Murgia, in Italia, ha spesso ribadito la stessa idea: parlare di oppressione senza vedere razza e classe significa raccontare solo metà della storia.
Il femminismo, allora, non è guerra contro gli uomini, ma progetto di liberazione collettiva. Perché il patriarcato non danneggia solo le donne. Anche gli uomini ne portano i segni, costretti a dimostrare forza, a tacere le emozioni, a vivere la virilità come obbligo. Una gabbia travestita da privilegio.
Eppure il patriarcato, con il tempo, è stato banalizzato. Femminismo e patriarcato appaiono come due specchi contrapposti, svuotati e ridicolizzati: da un lato la “femminista bigotta con la gonna lunga” o “la lesbica che odia gli uomini”, dall’altro il patriarcato evocato come meme, come se fosse “colpa del mammone”. Ma dietro la caricatura resta l’essenziale, un sistema che ha fregato per primo gli uomini, imponendo ruoli di potere e sacrificio come se fossero l’unica identità possibile.
Il patriarcato arriva persino a decidere come pensiamo il genere. Divide il mondo in due caselle – uomo e donna – presentandole come naturali e immutabili. Ma sono costruzioni funzionali a mantenere gerarchie, sempre con il maschile in posizione dominante.
La misandria, in tutto questo, resta solo una parola. Non ha mai scritto leggi, non ha mai imposto silenzi. È un’etichetta che distrae dal vero nodo dove un sistema, ancora oggi, stabilisce chi può camminare a testa alta e chi deve sempre quasi giustificarsi per farlo.
Tana (femminismo) libera tutti
Alla fine, il punto non è stabilire chi odia chi. L’odio può nascere ovunque, ma solo quando diventa sistema cambia davvero le vite, scrive leggi, modella culture. La misoginia lo ha fatto per secoli. La misandria no.
Ma c’è un’altra verità che dovrebbe far riflettere soprattutto gli uomini. Il patriarcato non colpisce solo le donne. È una prigione che imprigiona anche gli uomini, imponendo forza, dominio e silenzio emotivo come unici linguaggi ammessi. E attraversa razza, classe, sessualità, identità di genere, moltiplicando i livelli di esclusione e violenza.
Allora forse il punto non è accusarci a vicenda, né saltarci alla giugulare per difesa. Il punto è posare le armi e guardare il sistema che ci mette gli uni contro gli altri. Non per cancellare le differenze, ma per riconoscerle, affrontarle e trasformarle in forza comune.
Il femminismo intersezionale non è un nemico ma è un terreno di alleanza. Non serve scegliere da che parte stare con separatismi sterili, ma comprendere la radice di tutto.
“C’è chi dice è una strega tanto lei se ne frega…”
Serena Parascandolo
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