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Il fuoco in Nepal e la bandiera di One Piece: anatomia di un simbolo

Settembre 2025. Kathmandu in Nepal completamente in fiamme.

La politica pensa bene di spegnere i social network per “calmare” gli animi.

Brillante idea: come dire a una generazione cresciuta a meme, TikTok e Feed che la sua identità non conta nulla. Risultato? Diciannove morti subito, poi settantadue, oltre duemila feriti e un Paese sull’orlo del collasso. Il premier K.P. Sharma Oli, accusato di autoritarismo e clientelismo, non regge la pressione e si dimette il 9 settembre. Al suo posto, tre giorni dopo, arriva Sushila Karki ex presidente della Corte suprema, anticorruzione di ferro, prima donna a guidare il Nepal. Le elezioni anticipate sono fissate per marzo 2026.

Intanto, nelle strade, la regia è chiara, la Generazione Z. Quella che comunica a colpi di hashtag e meme. Quella che non ha più tempo per aspettare le promesse di riforma o credere alle frottole. Ed è quella che, oltre a bandiere nazionali e cartelli #WakeUpNepal, tira fuori un simbolo che spiazza tutti: la Jolly Roger di One Piece, il teschio col cappello di paglia di Luffy.

Per chi conosce l’anime, il messaggio è limpido. Un equipaggio che non riconosce i potenti, che si affida alla lealtà reciproca e naviga il mare come spazio di libertà. Portata in piazza, quella bandiera non è più semplice merchandising, ma reale dichiarazione di intenti. Roland Barthes, filosofo dei segni, avrebbe sorriso a questo che è l’esempio perfetto di come un simbolo, strappato al contesto, diventi mito. Depoliticizzato in fumetto, ripoliticizzato in piazza. Un “segno di libertà” istantaneamente decifrabile da chiunque.

Il caso nepalese è solo l’ultimo tassello di una storia lunga. I simboli di protesta hanno sempre saputo compiere metamorfosi potenti. Nel 1968 i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi resero universale la lotta afroamericana, come non citare la kefiah palestinese trasformata da tessuto tradizionale a segno di resistenza e solidarietà globale.

Anche gesti potenti come il taglio dei capelli delle donne iraniane nel 2022 fu insieme lutto e sfida al patriarcato. Il meccanismo è sempre lo stesso, un oggetto, un gesto, un capo d’abbigliamento diventa bandiera capace di concentrare la forza di un’intera mobilitazione. E qui però la faccenda si complica. Perché la moda, si sa, adora e sa lavorare bene con i segni. A volte fa centro, come nel caso di Katharine Hamnett nel 1984 con la t-shirt “58% Don’t Want Pershing” davanti a Thatcher è rimasta nella storia.

Pyer Moss, nel 2016, che apre la sua sfilata con un corto sulla brutalità poliziesca, ha trasformato una passerella in denuncia politica. Altre volte, però, si scivola nel ridicolo. Le t-shirt da centinaia di euro con scritte tipo “The Future is Female” hanno fatto venire il sospetto che il futuro fosse… solo un buon affare.

È la sottile linea rossa che attanaglia la Gen Z: amplificare un simbolo o ridurlo a gadget da Zalando? Cortocircuito. 

Immaginiamo la scena: un grande brand porta in passerella la Jolly Roger stampata su una t-shirt “ecosostenibile”come simbolo di protesta, mentre fuori i lavoratori che l’hanno cucita protestano sul serio. Prezzo base: 900 euro. Disponibile solo online, in edizione limitata, riservata a chi ha i “credits” della sfilata. Effetto wow assicurato, perfetto per l’ennesimo post Instagram con tanto di storytelling sull’inclusività. Ma la Gen Z non casca dal pero, è cresciuta decifrando loghi, meme e codici visivi più velocemente di qualsiasi ufficio marketing.

Per loro quella è un mito di fratellanza e libertà. Ridurla all’ennesimo pattern da collezione significherebbe tradirla, significherebbe che qualcuno ha deciso di appropriarsene ingiustamente e con la Gen Z i tradimenti non finiscono mai bene, sanno riconoscerli e, soprattutto, sanno farlo notare.

Sarebbe tutta un’altra storia se il brand, invece di limitarsi ad appropriarsi del simbolo, sposasse davvero la causa: scendere in piazza, prendere posizione, fare qualcosa di concreto. Non solo riempire casse e azioni finanziarie.

Questa generazione ha già archiviato il capitalismo da passerella, non vuole fumo negli occhi, ma sostanza. Preferisce l’impegno concreto all’estetica e sul quiet luxury ha già emesso la sentenza definitiva: archiviato, grazie mille, possiamo andare oltre.

Ovviamente questa è un’analisi immaginaria, ma serve a sottolineare un punto reale, la moda oggi non può più limitarsi a giocare coi segni, deve imparare a leggere i nuovi linguaggi e soprattutto cambiare atteggiamento verso chi, domani, sarà il suo pubblico e i suoi consumatori.

La rivolta in Nepal è il sintomo di un termometro sociale in surriscaldamento. I rischi di emulazione – sia di questo evento che di altri anche più drammatici, dagli attentati agli omicidi politici – sono dietro l’angolo, e ogni società li declinerebbe secondo le proprie fratture, le proprie geografie e i propri disagi.

Ecco perché la moda non può girarsi dall’altra parte. La storia recente è piena di simboli ridotti a caricature, pensiamo alla maschera di Guy Fawkes di V per Vendetta che oggi vale meno di un Funko Pop, la kefiah svuotata di senso venduta come foulard e spedita con Amazon Prime, gli slogan femministi usati come accessorio da chi difende i diritti solo davanti all’aperitivo tra noccioline e intersezionalità

Segni che bruciavano di rabbia, oggi sono diventati soprammobili da privilegio. Oggetti che danno l’illusione di pulire le coscienze, ma che sono la prova più lampante di come la svuotata estetizzazione delle lotte sia una delle cause che ci ha condotti fin qui. Se un simbolo muore svuotato, la colpa è di chi lo vende. E stavolta, non c’è storytelling che tenga.

Serena Parascandolo

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Photo credits: frame Netflix

La Redazione

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