Demna entra a far parte della Famiglia Gucci

Il debutto di Demna per Gucci non è una sfilata è l’anti-show.
Al posto del clamore, un lookbook-spoiler che sembra un meme vivente. Così il designer georgiano ha scelto di presentarsi alla Milano Fashion Week, ribaltando le aspettative e prendendo di mira, con la sua solita ironia corrosiva, proprio i fan accaniti del brand.
I protagonisti della collezione SS26 non sono modelle né modelli, ma cliché della moda all’italiana che tutti conosciamo, macchiette così azzeccate che guardandole è impossibile non ridere e pensare “vabbè io”.
Demna inscena una satira sociale che sbeffeggia quei pesantoni del fashion system a cui verrebbe da dire: “amo calmati, anche meno…”. Finalmente qualcuno osa prendere in giro il fashion victim e la sua ostinata convinzione di essere al centro del mondo.
Gucci diventa ironico, finalmente. La tradizione non viene rifiutata, ma quasi hackerata. Demna la maneggia con rispetto, sì, ma anche con la leggerezza che serve a togliere quella patina di reverenza soffocante che accompagna le maison storiche. La sua “Gucciness” è un esperimento identitario, un work in progress che definisce i nuovi confini del brand. Non più museo della moda, ma laboratorio vivo, capace anche di ridere di sé.
Basta con la pesantezza sacrale del “rispetto della maison” e degli “archivi storici” – Gucci non muore se ci ridiamo sopra, anzi, forse rinasce proprio da lì. Una moda che sa prendersi meno sul serio è paradossalmente più credibile, più libera e – diciamolo – più realmente inclusiva perché più reale. È ciò che manca oggi a tanti marchi, ancora incatenati a copioni stantii e polverosi.
Del resto Gucci è, prima di tutto, un marchio terribilmente italiano. Più che un brand, una saga familiare, tra genio creativo, crisi interne, amori e tradimenti, colpi di scena da soap turca in prima serata. Demna lo ha capito e ha deciso di alleggerire il melodramma con l’arma dell’umorismo. Invece di inchinarsi alla tradizione di famiglia, ci scherza sopra, smontando i cliché e trasformandoli in meme da passerella.
“Mi piace Milano, la gente si diverte con la moda”
ha dichiarato. E infatti il suo esordio è un atto di italianizzazione totale. Demna si è già calato nello spirito meneghino di una città che spesso si è presa un po’ troppo sul serio.
Aspettiamo la “vera” collezione alla prossima Fashion Week, certo. Ma il messaggio è già arrivato forte: ci voleva Demna per portare Gucci fuori dal mausoleo e metterlo su un palco di commedia, dove possiamo specchiarci, ridere e magari riconoscerci. Per una volta, nel dramma della moda, ci siamo davvero divertiti.
Gli abiti? Una carrellata di cliché trasformati in satira. Nell’armadio di famiglia troviamo:
L’Incazzata in cappottino rosso anni ’60, elegante e isterica, pronta a sbatterti la porta in faccia (c’è un’eco della signora Gentile di Sorrentino…); Miss Aperitivo col tubino che conosciamo tutti, mai sobrio, tra glamour e provincialismo. È la classica “fashion worker gender analyst project manager” che passa più tempo agli eventi che a lavorare, e infatti manco sa come guadagna; La Contessa scivola in seta e gioielli, più reality show che aristocrazia (fa quasi paura); Adorabili Il Principino e La Principessa che vestono completi impeccabili da matrimonio patinato, la farsa della perfezione di facciata che ogni famiglia italiana venera e usa come metro di paragone; La Cattiva, tacchi e pelle, sguardo che potrebbe uccidere. Cinica, con la battuta (secondo lei) sempre pronta, quella che speri di evitare al pranzo di Natale per non pagarti sei mesi di terapia extra; E poi i Partyboy, i Narcisisti, gli Androgini con camicie in seta sbottonate, pettorali scintillanti, paillettes piazzate con perfezione chirurgica. Quel glamour da discoteca di lusso impeccabile, ma con il tocco Demna che trasforma tutto in caricatura e specchio della realtà.
Sembra quasi che Demna, invece di sfogliare gli archivi storici del brand, si sia rivisto più volte Parenti Serpenti di Mario Monicelli. La sua “Famiglia Gucci” ha la stessa energia, un album di personaggi pronti a specchiarsi nei cappotti come le zie del film, ridere, punzecchiarsi e intanto affilare i coltelli sotto il tavolo. Ogni look diventa una maschera sociale, un ruolo familiare che tutti conosciamo. Non è moda come classica celebrazione, è moda come commedia nera all’italiana, dove l’abito non veste, smaschera.
Dopo Ford e Michele, Gucci non cerca più l’utopia estetica – che oggi suonerebbe “off” – ma la satira sociale. Non ci chiede di sognare, ci chiede di guardare la realtà in faccia e specchiarci. Cosa siamo noi? La snob che fa la rassegna di sfilate come fosse un casting, la sciura col Bamboo 1947, il narcisista da aperitivo eterno.
Gucci SS26 è un album che non vorresti mai sfogliare ma da cui non riesci a staccare gli occhi. Perché sì, alla fine “La Famiglia Gucci” siamo un po’ tutti noi. E come nei titoli di coda di Parenti Serpenti, resta l’invito più semplice e più sovversivo: “Ridere, senza malinconia…”
Serena Parascandolo