bell hook: memoriale

“La vera resistenza inizia quando le persone si mettono in gioco nella vita di tutti i giorni. Non basta parlare di libertà, bisogna praticarla.”
bell hooks, Talking Back: Thinking Feminist, Thinking Black (1989)
Oggi, nel giorno del suo compleanno, ricordiamo Gloria Jean Watkins, conosciuta al mondo come bell hooks. Ha scelto di scrivere il suo nome in lettere minuscole, perché riteneva che il messaggio fosse più importante della persona che lo comunicasse. E in questo gesto apparentemente piccolo c’è già tutta la radicalità della sua vita, quello di rifiutare l’egocentrismo, spostare lo sguardo dal sé all’altro, dalle gerarchie alle relazioni, bell hooks era così.
Ogni sua parola trasudava politica, ma l’ego politico le era estraneo.
Eppure troppe volte viene citata da chi non ha compreso il suo messaggio, usata come bandiera proprio per alimentare quell’ego che lei avrebbe ripudiato
Nata nel 1952 a Hopkinsville, nel Kentucky, hooks crebbe in una società attraversata dal razzismo e dal sessismo, figlia di una madre domestica e di un padre custode. Era una bambina nera in un’America segregata, un contesto che non lasciava spazio ai sogni. Eppure lei li ha coltivati, armata solo di libri, parole e una forza interiore fuori dal comune. Studiò letteratura, prima alla Stanford University e poi a Wisconsin e California, e scelse il nome “bell hooks” in omaggio alla nonna materna, un modo per onorare le radici e la genealogia femminile che l’aveva preceduta. Ma bell hooks non è stata solo una scrittrice. È stata attivista, pensatrice, insegnante, femminista radicale e visionaria. Nei suoi oltre trenta libri ha smontato i sistemi di oppressione che regolano le nostre vite, patriarcato, razzismo, capitalismo. Li ha interpretati come forze intrecciate che si rafforzano a vicenda. È proprio qui che nasce la sua idea di intersezionalità, concetto che oggi usiamo troppo spesso con naturalezza, ma che lei aveva già intuito prima che entrasse nel linguaggio accademico e attivista.
Per hooks non si può parlare di genere senza parlare di classe, non si può parlare di razza senza parlare di sessualità. Ogni identità e ogni oppressione si intrecciano, creando esperienze specifiche di esclusione e di resistenza.
Il suo femminismo non è mai stato elitario.
Non era il femminismo dei salotti accademici o delle copertine patinate, era un femminismo popolare, radicale e inclusivo, capace di parlare alle donne nere del Sud, alle casalinghe, alle persone queer, a chiunque vivesse ai margini. “Il femminismo è per tutti” scriveva nel 2000, con parole semplici e disarmanti che fanno riflettere.
C’era però un altro aspetto centrale nel suo pensiero: l’amore. Per bell hooks, l’amore non era mai sentimentalismo. Era atto politico. Amare significava resistere al disprezzo, opporsi alla violenza, creare comunità, costruire giustizia. Riteneva che senza amore, nessuna rivoluzione può durare.
Ma cosa significa realmente intersezionalità?
Per bell hooks le oppressioni non sono mai state binarie o isolate. Già nei suoi primi scritti prima che il termine intersezionalità diventasse noto grazie a Kimberlé Crenshaw bell hooks mostrava che nessuna analisi del potere può dirsi completa se non considera gli incroci delle identità e delle discriminazioni. Il suo femminismo era per questo radicalmente inclusivo. Non bastava parlare di “donne” in astratto, a quella parola bisognava sempre chiedere quali donne?
Perché una donna bianca e borghese non vive lo stesso sistema di oppressione di una donna nera e povera, e ignorare queste differenze significava cancellare vite reali, esperienze concrete. L’intersezionalità, per hooks, non era un concetto teorico da rivendicare, ma piuttosto una pratica di giustizia per leggere il mondo e costruire comunità capaci di resistere davvero.
Da questa consapevolezza nasceva anche la sua critica più radicale al mondo accademico.
hooks vedeva come nelle università americane – persino nei dipartimenti femministi – la teoria fosse usata in modo astratto e non intersezionale.
Si parlava di emancipazione con linguaggi complessi e autoreferenziali, accessibili solo a chi già apparteneva a un’élite. Il risultato era paradossale, un femminismo confinato nelle aule universitarie che escludeva proprio chi avrebbe avuto più bisogno di quelle parole. Per lei, la teoria aveva senso soltanto se diventava strumento di trasformazione concreta. Non si stancava di ripetere che la conoscenza doveva uscire dai campus ed entrare nelle comunità, nei quartieri, nelle vite di tutti i giorni. Anche il suo stile di scrittura era una scelta politica: parole semplici, dirette, accessibili, per abbattere il muro che l’accademia aveva costruito attorno al sapere. Un femminismo che non è intersezionale non è femminismo ma retorica.
Portare avanti il suo verbo oggi?
Come possiamo onorare bell hooks? Anzitutto riconoscendo i nostri privilegi, mettendoli a disposizione degli altri e, quando serve, smontandoli. L’intersezionalità che hooks ci ha insegnato non è mai stata la celebrazione dell’“io” – non è dire “io avrei fatto” o “io avrei detto”, non è un titolo da esibire. È, piuttosto, una pratica quotidiana che ci chiede di spostarci dall’ego alla collettività. La sua teoria accoglieva il margine senza giudizio, mentre oggi capita di parlare di “margini” facendo sentire inadeguate proprio le persone che da lì provengono. Così l’intersezionalità rischia di ridursi a un’etichetta performativa.
Se vogliamo davvero incarnare il suo pensiero, dobbiamo smetterla con le gerarchie su chi sia più radicale, più “puro”, più intersezionale degli altri. Dobbiamo iniziare a usare quello che siamo, chi conosciamo e le risorse che abbiamo non per separarci, ma per includere, per aprire spazi e costruire comunità reali.
Leggere e comprendere bell hooks richiede un atto di coraggio, significa guardarsi allo specchio e scoprire parti di noi che non ci piacciono, ammettere privilegi, errori e complicità. Porta dolore, vergogna, ma anche la possibilità di trasformarsi. Anche mettersi in discussione è un atto politico.
Viviamo in un tempo in cui la solidarietà sembra ovunque, tante persone si dicono vicini alla Palestina, o ad altri popoli oppressi. Eppure, nel quotidiano, si comportano con gli stessi meccanismi dell’oppressore. Con le parole, con i piccoli gesti, con la logica del dominio. È qui che si misura se l’intersezionalità di bell hooks è stata compresa o soltanto strumentalizzata. Essere solidali non basta se non ci trasformiamo. La teoria deve farsi vita. Prendere posizione richiede sacrificio. Se vogliamo davvero onorarla, e definirci intersezionali dobbiamo dimostrarlo nelle scelte, nei gesti, nelle relazioni quotidiane.
Ricordarla oggi significa riconoscere quanto ci manchi la sua voce, teorica e concreta. In un mondo che sembra dividersi in slogan vuoti e lotte frammentate, bell hooks ci invita a ricucire, a guardare le oppressioni nella loro complessità, a non dimenticare che dietro ogni categoria ci sono corpi e vite reali.
Nel giorno del suo compleanno, possiamo leggere le sue pagine con gratitudine e malinconia. Grati per ciò che ci ha lasciato, malinconici perché senza voci come la sua il rischio è tornare indietro e
ricordare che il femminismo non è un club esclusivo, ma un movimento di liberazione universale; che l’intersezionalità non è una moda, ma una lente necessaria; che l’amore, quando è giusto e rivoluzionario, è la più grande forza di cambiamento.
bell hooks non c’è più, ma continua a parlarci.
E oggi, forse più di ieri, abbiamo il dovere di ascoltarla.
Serena Parascandolo