“Mia moglie” la vetrina online della cultura dello stupro e della violenza maschile

Un gruppo pubblico su Facebook chiamato “Mia moglie”, chiuso oggi dopo circa 6 anni di attività, ha raccolto oltre 31–32 mila iscritti, principalmente uomini. All’interno venivano pubblicate foto intime di donne compagne, mogli, a volte sconosciute spesso ritratte in costume, mentre cucinano o si rilassano, mentre cucinano, allattano figli, tutto, ovviamente senza alcun consenso.
La vicenda è stata resa pubblica grazie alle denunce dell’associazione No Justice No Peace, impegnata nella campagna “Not All Men”, e dell’attivista Carolina Capria (@lhascrittounafemmina), che ha definito quel che accadeva nel gruppo come “porno non consensuale e misoginia sistemica”.
La Polizia Postale è stata sommersa dalle segnalazioni, si parla di migliaia di denunce in un solo giorno. Di fronte alla pressione pubblica e istituzionale, Meta ha rimosso il gruppo, citando la violazione delle proprie policy contro lo sfruttamento sessuale. In Italia, la diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, anche se originariamente scattati con il consenso della persona ritratta, diventa reato nel momento in cui vengono condivisi senza il suo esplicito permesso.
Questo vale anche se le immagini non mostrano atti sessuali ma ritraggono l’intimità o la quotidianità della persona in modo potenzialmente lesivo della sua dignità o privacy. La legge di riferimento è l’articolo 612-ter del codice penale, introdotto nel 2019 con la legge “Codice Rosso”. Questa norma punisce con la reclusione da 1 a 6 anni e una multa da 5.000 a 15.000 euro chiunque diffonda, invii, ceda, consegni o comunque pubblichi immagini o video privati senza il consenso delle persone coinvolte, anche se ottenuti con il loro permesso iniziale.
Le foto erano accompagnate da commenti volgari e sessisti, trasformando la violenza digitale in intrattenimento, un “supermercato” di corpi femminili. Le foto di donne ignare divulgate come un’autovettura con tanto di dettagli tecnici su km, consumi e servizi. Disgustoso. Molti utenti hanno provato a difendersi sostenendo che le immagini fossero consensuali o addirittura condivise dalle donne stesse, una forma evidente di neutralizzazione morale della devianza e disonestà interessata alla violenza, dove il comportamento violento viene minimizzato o giustificato. Su scala più ampia, la vicenda è anche un esempio di victim-blaming, ovvero la tendenza a colpevolizzare indirettamente le vittime di violenza per il solo fatto di essere mostrate un tema purtroppo ancora persistente nelle società strutturalmente sessiste.
Il gruppo “Mia moglie” è una manifestazione estrema e violentemente esplicita della cultura dello stupro (rape culture) quel sistema in cui la violenza sessuale e il non-consenso vengono normalizzati, e i corpi delle donne diventano merce da esporre, commentare, giudicare.
Questo scandalo non è solo un evento isolato, è il riflesso di un sistema patriarcale che educa gli uomini alla sopraffazione, considera la sessualità femminile come proprietà e legittima comportamenti violenti nascosti sotto la patina del “gioco” o della “goliardia”. Gruppi del calcetto – video di attrici, showgirl e in questo caso anche donne, compagne, sorelle vicine spesso vengono sottovalutati e considerati pesanti da quella cerchia di persone che non hanno ben inteso quanto questo sia alla radice di una violenza sistemica di genere.
La violenza spesso indossa anche giacca e cravatta, camice o divisa. Il volto della violenza rispettabile.
Tra i membri del gruppo “Mia moglie” c’erano anche avvocati, medici, poliziotti, militari. Persone con ruoli pubblici, che ogni giorno esercitano autorità, potere, fiducia. Gente che, dopo aver pubblicato o commentato la foto di una donna qualunque forse la propria compagna, forse una sconosciuta, potrebbe trovarsi il giorno dopo a decidere sulla sua denuncia, curarla in ospedale, o magari fermarla per un controllo stradale.
Questo è il punto: non parliamo di “mostri” isolati, ma di uomini perfettamente integrati nel tessuto sociale, spesso “rispettabili”, che agiscono violenza in spazi di apparente normalità. Ed è proprio da qui che si vede la natura sistemica della cultura dello stupro. Non nasce da uno stupro nel vicolo buio.
Inizia dalla battuta sessista non contestata, dalla condivisione “goliardica” di una foto, dall’oggettificazione di corpi vissuti come disponibili a prescindere. Inizia quando il potere (sociale, economico, culturale) normalizza la prevaricazione, la scusa, la minimizzazione. La verità è che questo tipo di violenza cresce in silenzio, ma esponenzialmente. Un gruppo Facebook che nasce per “giocare” con le foto delle mogli altrui diventa in pochi mesi un archivio di pornografia non consensuale.
Da lì, il passo verso lo stalking, il revenge porn, la molestia diretta e talvolta lo stupro (in più forme) è più breve di quanto si voglia ammettere. Perché l’impulso maschile, se legittimato culturalmente, diventa rapidamente diritto presunto. Serve, oggi più che mai, un intervento politico strutturale e deciso. Non bastano le segnalazioni, né le rimozioni temporanee da parte dei social ma piuttosto strumenti chiari e profondi che operino a monte. L’educazione al consenso fin dalle scuole primarie, non come “tema opzionale”, ma come parte centrale della formazione civica.
Una Formazione obbligatoria per forze dell’ordine, giudici, sanitari, perché chi gestisce la violenza non può riprodurla o ignorarla. Normative più stringenti per le piattaforme digitali, affinché la moderazione sia preventiva e non solo reattiva. E soprattutto: un ribaltamento culturale in cui la responsabilità di combattere questa violenza non ricada sempre sulle donne.
La responsabilità deve tornare su chi ha il potere di agire per cambiare.Su quegli uomini cis-etero, bianchi, spesso privilegiati, che possono permettersi il lusso di tacere. Il silenzio, in questi casi, non è neutralità è complicità. Non possiamo più accettare che la difesa dei diritti delle donne sia lasciata solo a chi li subisce. È ora che chi beneficia di sistemi di privilegio scelga di sporcarsi le mani per decostruirli, pubblicamente, attivamente, ogni giorno passando dall’altra parte. Alle donne coinvolte, ci sentiamo di dire che non siete colpevoli, non siete sole. Questa violenza è un atto perpetrato contro voi, non da voi.
Parlare, denunciare, chiedere aiuto non vi rende fragili, ma coraggiose.Agli uomini cis etero bianchi di non restate inerti. Usate la vostra voce, il vostro riconoscimento sociale, e i vostri canali (personali o professionali) per diffondere consapevolezza, difendere le vittime, condannare le azioni violente. Diventate attivi nel sostenere quante più donne possibile perché la vostra complicità silenziosa è la linfa che alimenta questa cultura della sopraffazione.
Serena Parascandolo
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