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Il sesso è ancora un tabù (anche per noi sessuologhe)

Come si fa a parlare di sesso in una società che lo consuma ma non lo digerisce? Come si può essere una sessuologa in un mondo bulimico di sesso, ma analfabeta di sessualità?

E tu, di cosa ti occupi?” è la domanda che mi aspetto ad ogni aperitivo, cena o incontro sociale. Non perché non ami il mio lavoro – anzi, lo adoro – ma perché so già cosa succederà dopo. Il silenzio. Lo sguardo imbarazzato. Il cambio di argomento repentino. Il “Ah, interessante…” pronunciato con lo stesso tono che si userebbe per dire “ho le verruche ai piedi”.

Sono una psicologa clinica con orientamento sistemico – relazionale specializzata in sessuologia, e ogni volta mi ritrovo a dover gestire non solo le mie competenze professionali, ma anche l’imbarazzo altrui

È come se avessi detto di occuparmi di necrofilia invece che di una funzione umana tanto naturale quanto mangiare o dormire…

E la cosa più paradossale? Viviamo nell’era dell’informazione, dell’apertura e della rivoluzione sessuale. Abbiamo app di dating che ci permettono di fare sesso con sconosciuti in meno di mezz’ora, pubblicità che vendono yogurt greco usando la metafora dell’orgasmo, film che mostrano ogni tipo di pratica sessuale immaginabile… eppure, quando si tratta di avere una conversazione autentica sul sesso, improvvisamente diventiamo tutti dei puritani vittoriani.
Il che mi porta a una riflessione scomoda: se persino noi sessuologi, psicologi, educatori o medici dobbiamo lottare contro i tabù, quanto devono essere difficili le cose per chi il sesso lo vive semplicemente, senza averne fatto una specializzazione professionale?

È IL PARADOSSO DELL’IPERSESSUALIZZAZIONE

Inizio con una contraddizione che dovrebbe far inorridire chiunque abbia un minimo di senso critico: viviamo nella società più sessualmente esplicita della storia umana, eppure continuiamo a essere incredibilmente immaturi quando si tratta di parlare di sesso in modo sano.

Accendi la TV, apri un social a caso, guarda un cartellone pubblicitario: il sesso è ovunque. Corpi seminudi che vendono automobili, riferimenti sessuali nelle canzoni trap, reality show che fanno del sesso occasionale il loro format principale… 

La pornografia spettacolarizzata è accessibile a chiunque abbia uno smartphone, una TV e una connessione internet. L’industria del sesso va a gonfie vele.

Ma provate a parlare di educazione sessuale nelle scuole: scandalo. Provate a discutere di consenso, di piacere femminile, di salute sessuale, di vaginismo e di endometriosi: imbarazzo. Provate a nominare la parola “clitoride” in un contesto scientifico: risatine nervose. È come se avessimo separato il sesso-spettacolo dal sesso-esperienza-umana, creando due universi paralleli che non comunicano mai.

Il risultato è una generazione che sa tutto sui gemiti pornografici ma niente sull’anatomia femminile. Che conosce ogni posizione del Kamasutra ma non sa cos’è il consenso entusiastico. Che ha visto migliaia di orgasmi finti sullo schermo ma non sa come raggiungere quello vero nella vita reale.

E noi sessuologi clinici ci ritroviamo a dover fare i conti con questa schizofrenia culturale. Da un lato, la società ci dice che il sesso è importante, che bisogna parlarne, che la liberazione sessuale è un diritto; ma dall’altro, quando lo facciamo concretamente, veniamo trattati come se fossimo dei pervertiti travestiti da professionisti. 


LA SOCIETÀ CHE CONSUMA MA NON DIGERISCE

Il problema di fondo è che la nostra società ha imparato a consumare il sesso ma non a digerirlo. Lo ingoia velocemente, lo usa come intrattenimento, lo commercializza, lo spettacolarizza, ma non lo elabora.

Viviamo in una cultura sessuale bulimica. Consumiamo enormi quantità di contenuti sessuali ma non riusciamo mai a nutrircene, li rigettiamo immediatamente, senza che diventino parte di una comprensione più matura della sessualità umana.

E questa bulimia culturale si riflette anche nel modo in cui viene percepito il mio lavoro. Da un lato c’è una fame enorme di informazioni, di aiuto e di comprensione; dall’altro c’è una resistenza profonda ad affrontare questi temi con la serietà e l’apertura che meriterebbero.

È come se la società volesse i benefici dell’educazione sessuale senza dover affrontare il disagio di crescere sessualmente. Vuole le risposte senza dover fare le domande, vuole la liberazione senza dover affrontare i propri tabù.

LA VERITÀ SCOMODA: ANCHE IO HO I MIEI TABÙ

Ecco la confessione che forse nessuno si aspetta: anche i sessuologi e le sessuologhe hanno i loro tabù, le loro difficoltà e i loro momenti di imbarazzo. Non siamo divinità del sesso che planano sopra le umane debolezze: siamo persone che hanno fatto della sessualità la propria professione, ma che rimangono comunque figlie della stessa cultura che ha creato questi tabù.

Anche io ho dovuto lavorare sui miei pregiudizi, sulle mie resistenze, sui miei condizionamenti, e anche io ho attraversato fasi in cui mi sono chiesta se stessi “esagerando” con la mia apertura professionale.

È un processo continuo, non una conquista definitiva. Lavoro con persone che portano storie, traumi e domande che mi mettono di fronte a nuovi aspetti della sessualità umana – e ogni volta devo fare i conti con le mie reazioni, con i miei limiti e con le mie zone d’ombra.

Perché la verità è che il tabù non è solo esterno. È anche profondamente interno, personale, radicato in anni di non-educazione, messaggi familiari ed esperienze individuali. Diventare sessuologa non significa aver superato magicamente tutti i condizionamenti culturali. Significa averli riconosciuti e averci lavorato sopra, ma non significa essere immuni.

E questa vulnerabilità professionale, invece di essere un limite, è forse la mia forza più grande, perché mi permette di rimanere umana, di comprendere davvero le difficoltà di chi si rivolge a me e di non giudicare mai dall’alto di una presunta “superiorità sessuale”.

IL PESO DELL’ASPETTATIVA

Una delle sfide più difficili del fare questo lavoro è gestire le aspettative. Tutti si aspettano che, essendo sessuologa, io abbia una vita sessuale perfetta, che non abbia mai dubbi, che sia sempre disponibile, sempre aperta, sempre “normale” rispetto a tutto ciò che riguarda il sesso.

È una pressione enorme. È come se la mia professione mi avesse automaticamente assegnato un ruolo di “esperta di tutto ciò che è sessuale”, quando in realtà la sessualità è talmente vasta, complessa e personale che nemmeno dieci vite basterebbero per esplorarla completamente.

E poi c’è l’aspettativa sociale che io sia sempre disponibile a parlare di sesso. Agli aperitivi, alle cene o nei momenti di relax. Come se la mia professione mi obbligasse a essere costantemente “accesa”, senza mai il diritto di staccare, di essere semplicemente una persona che magari, in quel momento, vuole parlare di serie TV o di ricette di cucina.

IL PRIVILEGIO DI ACCOMPAGNARE

Nonostante tutte le difficoltà, i tabù e gli imbarazzi, fare questo lavoro rimane un privilegio enorme. Perché significa essere testimone di trasformazioni profonde, di liberazioni autentiche e di guarigioni che vanno ben oltre la sfera sessuale.

Ogni volta che aiuto una donna a riconnettersi con il proprio corpo, ogni volta che accompagno una coppia a ritrovare l’intimità, ogni volta che vedo qualcuno liberarsi da un trauma o da un blocco, mi ricordo perché ho scelto questa professione.È il privilegio di essere presente nei momenti più vulnerabili e più potenti della vita delle persone. Perché so che sto facendo la differenza nella vita di qualcuno in un ambito che è fondamentale per il benessere umano.

VERSO UNA NUOVA NORMALITÀ

Sarebbe bella una società in cui parlare di sesso fosse normale come parlare di salute mentale o di nutrizione! In cui l’educazione sessuale fosse vista come un diritto fondamentale, non come una concessione controversa. In cui il mio lavoro fosse percepito come quello di un medico o di un docente: importante, necessario e privo di imbarazzi.

Il sessuologo non è solo un terapeuta o un educatore, ma è un agente di cambiamento culturale. Ogni volta che parliamo apertamente di sesso, ogni volta che normalizziamo una conversazione, ogni volta che smontiamo un tabù, stiamo contribuendo a creare una cultura sessuale più sana.

Fare la sessuologa in una società che ha ancora tabù profondi sulla sessualità è un esercizio quotidiano di coraggio. È il coraggio di essere vulnerabili, di ammettere i propri limiti e di continuare a crescere insieme alle persone che aiuto.

Alla fine, forse è questa la lezione più importante che posso condividere: non esistono esperti assoluti della sessualità, ma esistono persone che hanno dedicato tempo, studio ed esperienza a comprendere questo aspetto fondamentale della vita umana. Rimaniamo tutte e tutti profondamente umani, con le nostre fragilità, i nostri tabù e le nostre zone d’ombra.

E forse è proprio questa umanità che ci rende credibili. Perché quando una paziente mi racconta le sue difficoltà, io posso dire: “Ti capisco. Anch’io ho attraversato momenti difficili. Anch’io ho dovuto lavorare sui miei blocchi. Ma si può fare. Si può stare meglio. Si può essere felici”.

Il sesso è ancora un tabù, sì, anche per noi sessuologi e sessuologhe. Ma ogni giorno, un paziente alla volta, una conversazione alla volta, un tabù smontato alla volta, stiamo creando una cultura sessuale più sana, più matura, più umana.

E questo, nonostante tutti gli imbarazzi e tutte le difficoltà, è il lavoro più bello del mondo.

Elisabetta Carbone

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Elisabetta Carbone

Elisabetta Carbone è psicologa clinica e sessuologa con orientamento sistemico-relazionale. Si occupa di relazioni, identità, narrazioni individuali e familiari, con uno sguardo attento alle dinamiche culturali e sociali che attraversano la psiche. Fondatrice dello studio Oikos, scrive di salute mentale con un linguaggio accessibile ma rigoroso, costruendo ponti tra psicologia e società. Vegetariana convinta, non fa un passo senza Teo, il suo inseparabile compagno a quattro zampe.
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