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Quiet luxury o silenzioso sfruttamento?

La Reggia di Caserta fa da sfondo a una sfilata ispirata al cinema del dopoguerra.

Ma mentre scorrono organze e sete pregiate, le sarte che hanno cucito provano a imbastire i loro diritti. Due mondi che non si incontrano mai.

Carlo di Borbone volle la Reggia di Caserta come residenza reale. Maestosa, sfarzosa, capolavoro dell’architettura barocca, venne definita “La Versailles del Sud”. Non a caso: Versailles non è solo simbolo di splendore assoluto, ma anche epicentro della rivoluzione francese, quella che rovesciò le élite per ridare voce al popolo. Oggi, tra i suoi marmi lucidi e stucchi dorati, Max Mara presenta la collezione Resort 2026.

Un tripudio di eleganza e sartorialità, con richiami al cinema anni ’50 come ‘Napoli Milionaria’, ‘Vacanze Romane’, ‘La Dolce Vita’. Ian Griffiths, direttore creativo del brand, si ispira a quel mondo che contribuì a rafforzare l’immaginario del Made in Italy. Ma prima ancora del cinema e delle passerelle internazionali, fu Rosa Genoni, stilista, attivista e pioniera del design italiano a teorizzare un’idea di moda nazionale, emancipata dall’influenza francese e fondata sulla cultura e l’identità italiana. Eppure, anche lei è spesso rimossa dagli archivi ufficiali. A quanto pare, certi archivi Max Mara li sfoglia solo a metà, le figure fondamentali restano tra le pagine saltate. 

Certo, quel cinema raccontava anche un’altra donna. Quella stanca, sfruttata, relegata ai margini. Mentre sullo schermo brillavano le dive, nella realtà tante donne lavoravano in silenzio, escluse da quel tipo di emancipazione estetica ed economica, riservata solo a chi aveva il privilegio di sognare. E oggi, quelle stesse contraddizioni sembrano ripetersi. 

La palette cromatica della collezione è composta da toni neutri, neri eleganti, rosa cipria, burro e periwinkle. I tessuti: lane fluide, crêpe di seta, micro-motivi stampati, completi sartoriali firmati anche da E. Marinella. Tutto rientra sotto l’egida del “quiet luxury” – quel lusso discreto, colto e rilassato che evita l’ostentazione.

Ma quanto può essere silenzioso un lusso costruito sull’invisibilità di chi lo produce?

Mentre sulle passerelle sfilano trench impeccabili e gonne a ruota, a Reggio Emilia, le sarte della Manifattura San Maurizio — azienda del gruppo Max Mara — scioperano. Chiedono dignità, tutele, contratti. Le loro voci rompono quella calma estetica.

“Ci dicono che siamo grasse, obese, e ci chiamano mucche da mungere.” “Abbiamo un limite per andare in bagno. Se lo superiamo, ci tolgono la pausa.”

Testimonianze raccolte dai sindacati Filctem-Cgil, Femca-Cisl e Uiltec-Uil. Parole dure, che contrastano con le nuance morbide della collezione.

Il quiet luxury predica equilibrio, ma che equilibrio c’è tra un abito da 3000 euro e una lavoratrice che guadagna un euro a metro cucito?

Il contrasto è netto. In prima fila alla sfilata, Gwyneth Paltrow e Sharon Stone applaudono l’eleganza della collezione, quella perfezione estetica in scena è il risultato di corpi stanchi, mani segnate dal lavoro, occhi stanchi di chi lavora dodici ore al giorno.

Il 12 giugno 2025, il caso approda alla Camera dei Deputati. I gruppi parlamentari AVS e M5S chiedono un’informativa urgente al Ministro del Lavoro. Denunciano insulti, condizioni disumane, licenziamenti, controllo delle pause e discriminazioni sul corpo femminile.

Il marchio parla di dignità femminile in passerella, mentre le donne che realizzano quei capi vengono punite per averla chiesta. 

Questa dissonanza non può essere ignorata. Se davvero la moda vuole raccontare la femminilità contemporanea, deve partire dal rispetto per le lavoratrici che la rendono possibile.

Non c’è eleganza senza etica. Non c’è moda senza diritti. E finché i riflettori resteranno accesi solo sulla passerella, sarà compito nostro, come consumatori, come cittadini, come esseri pensanti spegnerli dove servono e riaccenderli altrove. Ogni scelta d’acquisto ha un peso.

Boicottare il glamour tossico è possibile, non significa rifiutare la moda o l’eleganza come atto sovversivo ma piuttosto pretendendoli consapevoli di diritti e dignità. Un estetica consapevole, dove bellezza e giustizia non siano in contrapposizione ma sinonimi.   

Serena Parascandolo 

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La Redazione

Ciao! Sono la Redazione de La Testata – Testa l’informazione. Quando non sono impegnata a correggere e pubblicare articoli mi piace giocare a freccette con gli amici.
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