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“Di madre in figlia” di Concita De Gregorio e la giusta misura dell’amore

Il romanzo “Di madre in figlia” di Concita De Gregorio si porta dietro tutta la potenza di un’eredità familiare pesante e misteriosa.

Un’eredità fatta di segreti, di parole non dette e di ferite, tramandata di madre in figlia come un cimelio di famiglia che non puoi rifiutare.

Quanto amore si può dare ad una figlia? Qual è la giusta misura tra lasciare che attraversi un incendio e portarla in braccio affinché non si bruci i piedi sulla sabbia? È la domanda che diventa più urgente pagina dopo pagina. La lettura si fa più veloce. La speranza di trovare la soluzione in fondo al libro.

“Di madre in figlia” è la storia di tre generazioni di donne che prende le mosse dalla storia familiare dell’autrice. Adelaide è un’adolescente che si fa chiamare Adè perché non si sente né una ragazza né un ragazzo, anzi, non si sente e basta. La paralisi del sonno viene a trovarla spesso, l’ansia pure. Il cellulare è la salvezza: le serve per ascoltare le dirette prima di dormire, per nascondersi dietro lo schermo e per fare le videochiamate indispensabili alla psicologa. Per vivere, finché non le viene portato via. Sarà costretta a trascorrere un’estate intera in cima all’isola dove abita sua nonna, Maria Luisa, che non vede da anni, e che le requisisce il cellulare appena arrivata. Adè è completamente isolata dal suo vecchio mondo. Confinata su un’isola senza via di fuga, senza cellulare, senza psicologa, senza il controllo costante di sua mamma Angela, e forse libera per la prima volta.

Tre donne indissolubilmente legate e al contempo profondamente distanti. Le incomprensioni tra nonna e nipote sono all’ordine del giorno: il divario generazionale è fastidioso e a tratti divertente. Adè e Marilù parlano lingue diverse. Marilù parla del mare e della spiaggia e Adè risponde che non si spoglia davanti ad altri. Vuole portarla a passeggiare ma Adè vuole restare a casa. Crede di rimediare al suo disturbo del sonno con gli infusi di erbe e non sa cosa sono le casse wireless. Ma l’estate è lunga, le due vivono insieme e Adè non ha di meglio da fare. Col tempo, “nonna e nipote si conoscono e si riconoscono”, diverse eppure così simili, entrambe con un nome nuovo e un nome vecchio che non le appartiene più. Lo scambio generazionale è inevitabile, forzato e insieme naturale. Marilù in fondo è una donna affascinante, misteriosa e fuori dal tempo, incastrata tra il ricordo di un passato da celebrità negli psichedelici anni ’70 e un presente senza riflettori in una radura nel punto più alto di un’isola.

Spesso uno squillo ansioso rompe il silenzio della radura. È Angela, obbligata a chiamare sua figlia sul fisso di casa, ma è sempre Marilù che risponde. Chiede se Adè sta bene, se mangia, se dorme, se prende le medicine. Se Marilù l’accusa di essere tropo apprensiva, lei non perde l’occasione di rinfacciare a sua madre tutta la trascuratezza che ha dovuto subire sin da bambina: dimenticata tra le mille feste, sulle spiagge di notte, tra le braccia degli sconosciuti. Non avrebbe mai affidato Adè a sua madre se avesse potuto evitarlo.

Le voci di Adè, Angela e Marilù si alternano tra le pagine. Le fragilità vengono a galla e a poco a poco pure i segreti di famiglia, i tabù, gli argomenti che non si possono nominare. Nutriti dal silenzio, hanno origini antiche. Partono da Agata, la nonna di Marilù, forse da prima. Diventano il peccato originale. Una ferita ereditata senza averne memoria. Un mistero mai svelato di cui si sente comunque il peso.

È una storia di amore. Di amore misurato e di amore traboccante, dolce e amaro. Di una giusta misura che non si trova mai. Ognuna delle donne del romanzo ha agito e agisce affinché sua figlia non ripeta i suoi stessi errori e nel farlo le cambia per sempre la vita. Ognuna lo fa per amore anche se resta incompreso. Del resto non esistono famiglie perfette.

“una famiglia non è un team di ricerca, una squadra da allenare. È una rete di relazioni non necessariamente orientate al successo, alla vittoria. È una rete che ha valore in sé; il valore della durata”.

“Di madre in figlia” – Concita De Gregorio

È una storia di trasmissione intergenerazionale, ma è anche tanto altro: è critica alle tecnologie digitali, sensibilizzazione alla cura della salute mentale e persino caccia alle streghe (l’eco femminista arriva forte)! L’autrice si domanda come sarebbe tornare ad abitare un tempo senza Social Network, senza stimoli costanti, senza rincorrere il tempo. Lo sperimenta nel corpo di Adè, che deve imparare a toccare, a sentire, a guardarsi intorno. Un giorno sua nonna le mette tra le mani un articolo di giornale: “La resurrezione dei lavori manuali nell’era digitale. Benefici psicologici e fisici”. Parla dell’uncinetto, della ceramica. Delle mani che si muovo e la mente che si calma.   

Un romanzo profondamente attuale, ritratto della fragilità dell’individuo adolescente di questa generazione: bisognoso di conforto e fiducioso nella psicoterapia, aggrappato alle soluzioni più che alle domande. È anche il ritratto della libertà scapestrata e idilliaca degli anni ’70 e delle donne forti, guaritrici ed assassine, uniche artefici del proprio destino.

“Avresti avuto la forza di essere all’altezza di una donna che è diventata più forte di te? […] Non ho bisogno di niente, non ho bisogno di te. È questo, ai tuoi occhi, il mio peggior difetto ”

Angela, lettera a Gregor (pag 130-131)

Arrivano le ultime pagine. Cerchiamo svelti la risposta a quella domanda assurda. Qual è, quindi, la misura giusta dell’amore? L’amore che cura o avvelena a seconda delle dosi. Quando e quanto somministrarne? Quanto è bene agire nella vita delle persone che amiamo per proteggerle dai dolori?

Quando è necessario, quando non lo è, quanto puoi, più che puoi.

Nessuno conosce le dosi. Ognuno fa del suo meglio. Forse però, l’amore si inasprisce quando diventa il tramite egoista per espiare le proprie colpe. Quando lo usiamo per rifarci da una vita passata, per rimediare ai vecchi errori attraverso qualcun altro. Quando vogliamo vestire l’altro con i nostri panni.

Guardiamole da lontano, ogni tanto, le persone che amiamo.

Sull’erba, di notte, sotto la luna, dalla finestra illuminata.

Le spiamo, non fa niente. Guardiamole ridere e piangere lontano da noi. Forse ci accorgeremo di chi sono davvero, di cosa vogliono davvero. Proviamo a vedere cosa succede se non ci affatichiamo a creare per loro la felicità che non abbiamo avuto noi.

Forse la troveranno da sole.

Una che sia cura, o forse veleno. Che non sia artificiale.

Simona Settembrini

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Simona Settembrini

Simona Settembrini, classe 2001, laureata in “Culture Digitali e della Comunicazione”. Per descrivermi al meglio, direi che l’amore, in qualunque sua forma, è sempre al primo posto nella mia vita. Scrivo perché mi aiuta a rendere il mondo meno confuso e per mettere nero su bianco le mie emozioni e quelle degli altri, perché in fondo sono tutte uguali.
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