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Queer di Luca Guadagnino: un viaggio nella sublimazione artistica dell’assenza

Il lungometraggio è l’adattamento cinematografico della novella semi-autobiografica di William S. Burroughs.

Queer vede come protagonisti Daniel Craig nei panni di William Lee e Drew Starkey nei panni di Eugene Allerton.

TRAMA E ANALISI CRITICA

Messico, anni ’50 e una comunità queer totalmente emarginata, nascosta. Lee, un americano sulla cinquantina espatriato in Messico, trascorre le sue giornate vagando tra bar, passeggiando nelle strade, e consumando relazioni veloci in squallide stanze d’albergo con uomini diversi. Bevitore e fumatore incallito con una forte dipendenza da droghe spesso pesanti, sempre curato e ben vestito, sembra spesso accompagnato da una profonda tristezza, ha lo sguardo e i manierismi di chi dalla vita non si aspetta più niente di buono, e va avanti in automatico.

Con sua grande sorpresa, improvvisamente nella sua vita si accende una luce, all’inizio fioca e che poi diverrà accecante: Eugene Allerton.

Eugene è molto giovane, un ex militare, si muove con disinvoltura timida tra i bar, se ne sta in disparte con i suoi amici, fotografa tutto ciò che gli appare interessante. Tutto appare estremamente astratto: non sappiamo se Eugene sia gay, bisessuale, queer. Forse perché non importa.

E Lee ne diventa ossessionato. Lo segue, lo osserva per cercare di comprenderlo, non riesce a stargli lontano. Lo desidera, vuole stargli vicino, non smette mai di cercarlo.

Nonostante il desiderio di Lee sia unidirezionale, con Eugene che si mostra scostante e disinteressato ma sempre curioso e gentile, Lee continua, ci prova, non smette.

Perché Eugene per Lee non è solo l’ennesimo uomo da portare in una stanzetta sporca e scialba. Eugene diventa un simbolo, è la cura alla solitudine disperata di Lee, è il suo possibile conforto e le attenzioni che non ha mai ricevuto.

Eugene cede, ma non troppo, incuriosito dagli atteggiamenti di Lee.  Anche durante il sesso lui partecipa quasi passivamente, senza reale passione o desiderio, con gesti e sguardi metodici. Lee invece è estasiato, all’apice del piacere, il suo tocco è continuo e dolce ma unilaterale, spesso senza risposta.

Presto Lee si accorge che Eugene non riesce a dargli ciò di cui lui ha realmente bisogno, cioè intimità emotiva, connessione spirituale. Tenta in tutti i modi di capirne il motivo, addirittura spingendosi in una giungla del Sud America insieme a Eugene, alla ricerca di una sostanza psichedelica che è in grado di indurre la comunicazione telepatica. Lee vuole entrare nella mente di Eugene, scoprire cosa pensa realmente, non gli basta comunicare con le parole.

Vuole una connessione più profonda, più violenta, assolutamente sincera e senza filtri. Nella giungla la loro comunicazione raggiunge l’estremo, diventano un corpo solo. Eugene prova a dirgli cosa sente. “I’m not queer. I’m disembodied”. Dopo quest’esperienza Lee sente il bisogno di avvicinarsi a Eugene ancora di più. Eugene avverte l’opposto.

I due non si vedranno mai più.

È nei piani-sequenza della giungla sudamericana che Guadagnino raggiunge la sublimazione artistica, in realtà presente anche in altre scene della pellicola. I personaggi appaiono intrappolati in una dimensione spazio-temporale completamente sospesa che lo spettatore è costretto a seguire, sentendosi a sua volta intrappolato dalla frustrazione, imbarazzo, urgenza, rabbia, violenza e disperazione dei protagonisti.

Il regista sembra sempre in cerca dell’inquadratura perfetta, del momento violentemente idilliaco. La narrazione spesso appare, appunto, come sospesa, ferma, e l’eleganza formale e la tecnica artistica prendono il sopravvento, soffocando talvolta l’emotività e la linearità della trama.

Questa scelta può infastidire chi non è in cerca di tanta raffinatezza, chi si muove su narrazioni più crude e viscerali, e può rapire invece chi vuole un connubio perfettamente realizzato tra arte e cinema. Anche la fotografia, curata da Sayomphu Mukdiphrom, riflette l’iper-stilizzazione della regia: tutto sembra essere inghiottito dal buio, dall’ombra, e qualsiasi luce è sempre artificiale, costruita, mai naturale.

QUEER si dispiega nella dimensione dell’assenza. Per Lee tutto è assenza. Assenza di un’identità che può considerare unica e propria, assenza di intimità emotiva e assenza di amore, di significato, di sogni, di luce, di qualcuno con cui condividere la vita. La sua camminata sicura e i suoi atteggiamenti chic contornati da vestiti sempre alla moda rappresentano uno scudo che si è creato per difendersi, o quantomeno per non lasciar trapelare la sua vulnerabilità, la sua fragilità e tutte le sue assenze.

Assenze, queste, che danno vita a delle presenze che lentamente distruggono l’anima e il corpo del personaggio. Presenza di ossessioni, di droghe e di fumo e di alcool di cui fa uso solamente per non avvertire il senso di assenza se anche solo per qualche istante, per uscire dal proprio corpo e allontanarsene quanto più possibile.

Perché il corpo non è mai un luogo di sollievo, piacere, passione. È un luogo di guerra, di mine pronte ad esplodere; è il luogo di un desiderio che diventa una malattia, un serpente che avvolge Lee e lentamente lo soffoca. È il luogo di una costante e disperata ricerca di amore che ha sempre sbocchi autolesionisti, disfunzionali, dannosi, quasi letali.

Eugene è un passaggio, un tramite, l’ennesimo elemento a cui Lee si aggrappa per non soccombere a sé stesso, una sorta di comparsa misteriosa nella vita di Lee che oramai capisce di sentirsi sempre più consumato dal terrore del rifiuto, dalla vergogna che prova per la vita che ha vissuto e per la comunità emarginata a cui suo malgrado appartiene. Lee vuole essere visto, realmente visto, e accettato, ma trascorre gli anni nella consapevolezza che non succederà mai, perché non troverà mai il coraggio di esporsi totalmente, di farsi vedere in ogni sua sfumatura. Pensa che per lui sia troppo tardi.

Solo nella foresta Lee vive uno scarto sulla sua stessa carne, tra ciò che desidera e ciò che potrebbe avere. Per il resto della sua vita ciò che potrebbe avere resta sempre un condizionale, un miracolo impossibile, una luce flebile e lontana offuscata quasi completamente dall’ombra del suo senso di inadeguatezza.

Il finale si articola in una dimensione puramente onirica, anch’essa sospesa nel tempo e nello spazio. Vediamo un ouroboros, un serpente che continua a mordersi la coda, lo specchio del circolo vizioso di solitudine e dipendenze da cui Lee non riesce mai a scappare. Vediamo poi Eugene con un bicchiere di vetro in testa come un’allucinazione di Lee, che sbaglia mira e gli spara alla testa, simbolo dell’ennesimo disperato tentativo di liberarsi dalla morsa dell’ossessione.

Infine, vediamo un Lee anziano, ancora una volta in preda ad una cristi di astinenza che stavolta lo porterà alla morte; un Eugene giovane e bellissimo gli si sdraia accanto, lo abbraccia, le loro gambe si intrecciano. E Lee muore avvolto nell’abbraccio dell’amore della sua vita, anche se è solo un sogno che sta immaginando, ma è l’unica cosa che può alleviare la sua solitudine.

Nella novella di Burroughs, l’amore non corrisposto di Lee per Eugene è il tema centrale, da cui il regista Guadagnino ha voluto prendere le distanze:

“Non mi interessava raccontare la storia di un amore non corrisposto. Questa è una storia universale sull’amore, e il modo in cui le persone possono reciprocare l’amore e la tragedia di non essere emotivamente allo stesso livello nello stesso momento, pur amandosi”.

E ancora, parlando di cosa significhi essere omosessuale e di come le persone queer a volte siano costrette a navigare il mondo con una certa solitudine, spesso socialmente inflitta:

“Spero che questo film permetta al pubblico di capire chi siamo, cosa proviamo nella nostra vita privata, quando siamo soli, ovunque nel mondo”.

Marcella Cacciapuoti

Leggi anche: La carica queer dell’arte in Call Me By Your Name

Marcella Cacciapuoti

Classe 2001. Laureata in lettere moderne e studentessa di filologia moderna. Scrivo, leggo, e sogno un dottorato in linguistica. Mi chiamo Marcella e sono in continua evoluzione. Innamorata delle parole e affamata di pace. Racconto le storie degli altri per trovare la mia.
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